31 gennaio 2014

#VIAGGI: DONNE CHE DIVENTANO DEE - MAGIE DAL TIBET INDIANO



Sono donne speciali quelle che si possono incontrare in Ladakh, rifugiate in strettoie di cemento e spirali di fumo, tra le valli di una terra dove la santità è una questione di vita o di morte. Avamposto di Tibet in terra indiana, al confine con Pakistan ed Afghanistan, il Ladakh riserva all’universo femminile un posto d’onore, ma per entrarvi bisogna addentrarsi negli scomodi anfratti di una spiritualità che ha nel Tantra la sua matrice e nel Buddismo la sua successiva semplificazione e, per certi versi, distorsione.

In questo angolo di India tibetana, è la forza di natura tantrica che disegna paesaggi e stimola riflessioni, specie dopo aver incontrato almeno una di queste donne speciali del Ladakh: le oracolesse tantriche, sciamane guaritrici, custodi di segreti in parte svelati in parte velati da un intraducibile linguaggio arcano. Donne aggrinzite o senza età, che si presentano con un doppio nome – quello comune e quello iniziatico – donne mortali e immortali al tempo stesso, donne poco donne con la divinità nell’anima e una vita segnata per sempre.
 


Sonam Zangmo ha 80 anni, nome iniziatico Ayu Iamo. Il suo potere si tramanda da più di quaranta generazioni. Sembra una vecchietta dolce e rasserenante prima che la terribile Maha Kali, la Grande Madre “guerriera dei mondi”, si impossessi di lei. Kali è la divinità più potente del tantrismo e la nostra oracolessa ha la “fortuna” di avere proprio Lei come spirito guida, lo spirito che entra nel suo corpo durante la trance. E’ allora che tutto vacilla, le membra fremono, il fumo invade la stanza, la tosse martella la voce rotta delle grida a suon di vajra e tamburelli, mentre gli astanti ammassati davanti a Maha Kali in persona si prostrano per ricevere consigli e benedizioni. Dura pochi minuti la cerimonia della vestizione e dell’entrata in trance, tra offerte e incensi da bruciare, formule magiche e una volontà superiore che, in sostanza, utilizza il forte potere creativo dell’immaginazione. Altrettanti minuti densi di ipereccitazione sensoriale, come a seguire con il corpo un fraseggio divino, anticipano l’uscita dalla trance e la svestizione, pochi e puntuali gesti per ritornare a guardare il mondo con gli occhi di una ottantenne contadina del Ladakh. 

Tsewang Dolma, 52 anni, sarebbe morta o finita male se non avesse seguito il suo destino da oracolessa. Sarebbe finita in un manicomio a scontare la pena delle sue visioni che avrebbero trovato spazio in qualche cartella clinica col nome di una certificata psicopatologia da curare. Se non fosse nata in Ladakh. Da queste parti – dove sembra non esserci spazio per la malattia mentale e se si muore si muore di povertà, nuda e cruda – la mente è il rifugio dove custodire la sacralità della vita, persino nella sua follia. Così Tsewang Dolma, incanalata nel percorso sciamanico dal Lama Stakna Rimpoche che ne ha sigillato l’ufficialità, pratica le sue guarigioni come una sorta di medico del villaggio a Leh, capitale del Ladakh.

Il rituale della vestizione si rinnova, anche lei indossa il tipico “cappello” simbolo della trasmutazione – da donna a dea – si deterge di essenze speciali e, con gli occhi fissi sull’immagine-santino appesa davanti al suo tabernacolo personale, invoca la litania che la introduce nella trance. Intanto si è formato un semicerchio attorno alla sciamana. Tsewang Dolma segue con lo sguardo, apparentemente assente, movimenti e gesti degli astanti e, chissà per quali indizi di volontà superiore, chiama solo alcune persone a prostrarsi davanti a lei. Dapprima i polsi, una tenue stretta per individuare battiti ed eventuali anomalie, poi a ciascuno la sua porzione di corpo da “succhiare”. Sì perché Tsewang Dolma letteralmente aspira con una cannuccia il male dalla parte del corpo che necessita di una purificazione, per poi sputare un liquido giallastro in una ciotola. L’oracolessa in questione, infatti, è anche una guaritrice ed ha molto seguito nel piccolo villaggio di Leh.

Assisto attonita al rituale della cannuccia che preleva l’infetto dalla guancia di una donna anziana gesticolante che accusava problemi ai denti, troppo assorta per rendermi conto che ne facevo parte anch’io, di quel serio gioco della divinità matriarcale. Vengo chiamata al cospetto della sciamana prima ancora che potessi giurare a me stessa di non farmi suggestionare, e in un batter d’occhio, le sue mani sono sul mio ventre e, in corrispondenza, dietro la schiena, mentre parole in tibetano, ripetute tipo mantra ossessivo, pronunciano la sentenza definitiva: “togli l’ansia dallo sforzo”. E dio solo sa quanto viscerale sia la mia personale inquietudine, localizzata esattamente nei punti che Tsewang Dolma ha voluto purificare. Avrebbe potuto dire qualsiasi cosa, ma niente avrebbe favorito la mia riflessione mista ad autentico stupore, come quella breve formula di parole. Ma questa è un’altra storia.  


Finito il giro di corpi (e anime) da guarire, la sciamana si ritira nel suo angolo di santità per praticare il ritorno all’ordinario: svestizione, benedizioni varie, scampanellii e litanie di sottofondo. E dopo qualche minuto, eccola tornata donna, sorridente nel suo habitat casalingo, fa quasi tenerezza. Si forma nuovamente un circolo attorno a lei, ma questa volta sono solo donne comuni, gente del luogo, corpi raggrinziti e senza età che chiacchierano in confidenze per noi inaccessibili, come vecchie amiche che passano il tempo. Un salotto davvero insolito, quella catapecchia intrisa di polvere e puzzo di incensi. Eppure nei loro sguardi non c’è traccia di disarmonia e in un colpo d’occhio posso cogliere anch’io, fuggiasca di passaggio senza arte né parte, un lampo di beatitudine che non ha, ne avrà mai, un nome. Solo il riflesso, un po’ sbiadito ormai, di un cerchio di donne malferme e scomposte. Le più belle che io abbia mai visto fin’ora.

Articolo pubblicato su La Stampa - Copyright 2011 © TURISMO.it / Nexta 2011

Le foto inserite in questo post hanno fatto parte di una mostra fotografica dal titolo "India: Istantanee in versi" (2008)

30 gennaio 2014

ACCETTA E LASCIA CHE SIA - IGOR BRAGATO

Quando emergono in noi stati profondi: paura, tristezza, solitudine, rabbia, o il così diffuso male di vivere… cadiamo tendenzialmente e in modo automatico in una sorta di reazione a catena, in un circolo vizioso di emozioni che ci porta sempre più giù. Quando accade qualcosa in noi, la nostra mente interviene, il nostro ego inizia a generare delle reazioni inconsce e altre volte, apparentemente, consce. Possiamo immaginare l’evento anomalo come un virus estremamente pericoloso e come se l’ego fosse il salvatore o il controllore delle nostre risposte immunitarie che immediatamente devono essere chiamate in causa per arginare la situazione indesiderata e a “lui” potenzialmente fatale. 

La buona notizia è: 
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"Tutto ciò che è fatto per amore è sempre al di là del bene e del male"
(
Friedrich Nietzsche)

Consigli di lettura
"Luce - Appunti di Viaggio per la Tua Anima" di Igor Bragato

27 gennaio 2014

Poesia Nascita di Robindronath Tagore

 
Copyright © 1995 Edizioni Bolis - Bergamo


"Di dove venni mai?" chiede il piccino
alla mamma, "e dove mi prendesti?".
Risponde lei tra i sorrisi e le lacrime
stringendolo al suo seno:
"Ti nascondevo in cuore, amore mio,
dove vivon celati i desideri.
Ti nascondevi nella dolce bambola
dei miei giochi d'infanzia;
o se, pregando, all'alba immaginavo
l'innocenza di Dio, era tuo quel volto.
Ti nascondevi tra reliquie sante;
io ti adoravo quando le pregavo.
Eri nascosto nelle mie speranze,
nel mio amore vivevi. In te alitavano,
io, tua madre, e mia madre e tutti gli avi.
Ti nutriva lo spirito immortale
che da sempre protegge la famiglia.
Come fiore fragrante profumavi
quando il mio cuore apriva ogni suo petalo
al sole della prima giovinezza;
chiuso in me, la mia grazia era la tua.
Primo amore del cielo,
fratello della luce dell'aurora,
scendesti il lungo fiume della vita
sino a trovar la spiaggia del mio cuore.
Se guardo a te m'immergo nel mistero:
parte viva del Tutto che ci avvolge,
avvolto in me sei diventato mio.
Per timore di perderti ti stringo,
nel porto del mio seno io ti conduco.
Quale altra magia, puo' offririmi tanto?"

In questo breve cerchio delle braccia
il tesoro del mondo
trova il nido per farsene corona.

19 gennaio 2014

Poesia: Il mestiere del dare

Profumi gesta d'intenti
lontana l'eco
del remoto sguardo finito a baciare l'attesa
appendere il cielo alle pareti
e dovunque sentire
profumo di te con la pelle sonnambula
non rimane la strada con il sole
ma il sole ci solleva i passi veloci
su tragitti che non fanno rumore
anche di notte, se la notte ha un dovere
è quello di farci stringere più forte
principianti di un solo amore
ed è in ogni attimo che scende su di noi
ad attorcigliarci monili di aurore e sentimento
che si fa leggero come una piuma
il mestiere del dare

 

(Inedita 2010©Cecilia Martino)

Questa poesia ha dato il titolo al mio Blog.
Ha dato il titolo a tante cose, per la verità, nella mia vita.
Dare è una di quelle parole che nel vocabolario dell'anima non dovrebbero mai mancare, da sola basterebbe a compiere miracoli.
Il problema è che troppo spesso viene fraintesa, usata male: non si può mai dare agli altri più di quanto non si riesca a dare prima di tutto a se stessi.
Solo da questo punto si può partire. Non ci sono scuse, né c'è altro da sapere.
L'altruismo che non proceda da un reale senso di centratura personale, apertura di Cuore, abbandono, SURRENDER ... è solo egoismo mascherato. E' una forma di ego inverso, un modo come un altro per riempire vuoti esistenziali. 

Non c'è nessun'altro mestiere che valga la pena imparare se non quello di amarsi (e amare) incondizionatamente.
DARE, DARSI. 

Non c'è un solo post che io rilasci su questo Blog che non sia prima di tutto un gesto amorevole per me stessa.
E' il solo limite che mi sono posta nel creare questo spazio virtuale.
E' il solo limite che rende veramente liberi.



"Il principale compito dell'uomo nella vita è dare alla luce sé stesso
(Erich Fromm)


Maimouna Guerresi
LIGHT SIGNS, 2000
Bronzo cm 200x200x110
Torino - Piazza Castello







Ho scattato questa foto durante una mia passeggiata solitaria per le vie di Torino trovando irresistibile il gesto delle mani che tale scultura rappresenta. Racchiuse a formare una coppa, un contenitore, nell'intenzione di accogliere, di prendere, di ricevere ma anche di dare, offrire, donare. Perché il circolo tra le due cose è sempre virtuoso e interconnesso. Questo mudra delle mani può essere un buon "esercizio" per stimolare l'apertura dell'energia del Cuore: si può immaginare di riempire le mani con acqua che purifica, ad esempio, e poi rovesciarla sul capo visualizzando che scorra dalla testa fino ai piedi. O possiamo portare le mani raccolte in questo mudra direttamente davanti al plesso cardiaco, al centro del petto (l'Anahata chakra dello yoga), immaginando che una fonte incontenibile di amorevole energia vivificante sgorghi proprio da lì e venga raccolta dalle nostre mani per poi poter essere donata all'esterno, alla Terra e agli altri. Possiamo porre la nostra "coppa" delle mani in prossimità di qualsiasi parte del corpo sentiamo di voler rigenerare, purché rimaniamo nell'intenzione focalizzata di voler compiere un autentico rituale di amore. 

"Giving is the art of living" (Yogi Bhajan)


07 gennaio 2014

LA BAMBINA CHE SI "FISSAVA" SULLA VITA

C'era una volta una bambina che spesso, le domeniche, andava a trovare alcuni suoi parenti in una grande casa che ospitava anche tanti altri bambini come lei. C'erano pure molti cani di cui uno in particolare, una femmina di dobermann dal pelo nerissimo, le metteva un pò di soggezione. Si chiamava Lula. Poi c'era Furia, un cane vecchissimo che, invece, non provocava alcun effetto su di lei se non tenerezza per la sua camminata arrancante e goffa. I cani abbaiavano sempre non appena il cancello d'ingresso al giardino della casa si apriva. L'abbaiare dei cani era il primo suono familiare che alla bambina faceva presagire l'incontro con i suo cari, in particolare con la zia che aveva la gestione dell'intera casa. Una zia importante di cui tutti avevano sommo rispetto e quasi timore reverenziale, e di cui lei portava il nome. La zia era la sua madrina di battesimo. Il pulmino che la conduceva in questa grande casa era guidato da una suora ed era di colore beige. Oltre a lei, che amava sedersi sempre vicino al finestrino per appiccicarci il viso e osservare a più non posso di fuori, nel pulmino c'erano anche i suoi genitori e suo fratello.

Ma, non appena la bambina si sedeva nel suo posto vicino al finestrino e sentiva accendersi il motore e il pulmino iniziava a mettersi in movimento, per lei non c'era più nessuno su quel mezzo ambulante, tutto attorno svaniva, tanto l'osservazione del mondo fuori dal finestrino la rapiva. Non era un rapimento da imbambolamento però. La bambina, infatti, si ritrovava ad osservare così attentamente ogni singolo dettaglio della visione che metteva a fuoco di volta in volta, che spesso perdeva la cognizione della realtà ordinaria, entrando in uno stato di coscienza che dall'esterno poteva senz'altro apparire ipnotico. Eppure la bambina era cosciente, e lucida, e si divertiva a rimanere in quello stato. Ma poi subentrava un momento, una frazione di secondo, un lasso di tempo non quantificabile in cui all'osservazione concentrata di ogni cosa colpisse il suo sguardo subentrava una sorta di eccitante sgomento, a seguito di uno spontaneo lampo di coscienza (come chiamarlo, altrimenti?) in cui la bambina - occhi fissi e mente concentrata sui suoi oggetti di contemplazione - entrava nel mistero della parola "VITA"




Foto da Wikimedia Creative Commons
Ci entrava letteralmente, perché era come se quella parola si ripetesse da sola come un ritornello (oggi mi piacerebbe chiamarlo mantra) nella testa, senza distoglierla però dalla sua attenzione primigenia. Vita, vita, vita, vita, vita, vita… Era come se la ripetizione silenziosa di quelle quattro lettere la facesse andare ancora più oltre il vortice di osservazione che già tanto la attanagliava, coinvolgendola. Allora si ritrovava a domandarsi: "ma da dove vengono tutte queste persone? E queste macchine? E questi semafori? E questi alberi? E il cielo? E le nuvole?".

Qualsiasi cosa entrasse nel suo campo visivo, diventava punto di domanda e andava a perdersi nei meandri di chissà quali sentimenti, percezioni, ricordi ancestrali, sogni. Fatto sta che la bambina, a quel punto, provava una sorta di vertigine, un'apertura che le faceva trattenere il fiato fintantoché la sensazione durava. Ma non durava tanto. La filastrocca sulla “vita”, così come era venuta se ne andava, dal nulla si diluiva nel nulla e la bambina ci provava a rallentare quella fuga, a trattenere quel ritmo nella sua mente affinché la facesse perdurare in quello stato così strano, intenso, ineffabile. Ma… niente da fare, tutto svaniva. E, proprio come un incantesimo, anche la bambina “ritornava”. Da dove non lo sapeva, ma sentiva che era stata in un luogo prezioso, in un punto indefinibile senza tempo né spazio in cui la sua stessa immaginazione (oggi la chiamerei Presenza) era stata portatrice di realtà più vere di qualsiasi altra esperienza stesse vivendo in quel momento. Più vere del pulmino beige, della suora che lo guidava, dei suoi genitori, di suo fratello e persino di quella bambina seduta con il viso appiccicato al finestrino.

Il mondo è pieno di cose ovvie che nessuno si prende mai la cura di osservare”.
(Arthur Conan Doyle)

Letture consigliate
“Risveglio. Con gli esercizi delle antiche scuole esoteriche” di Salvatore Brizzi
LA BAMBINA CHE DISEGNAVA I BUCHI NERI


Risveglio