24 aprile 2019

La lanterna di Diogene | Una vita senza fiuto

Johann Tischbein, Diogene cerca l'uomo


I colori della sera s’oscurano di una luce indefinita, quando i contorni e gli oggetti da essi racchiusi lentamente ritornano a un principio che tutto assorbe: è il crepuscolo.
Gli uomini si fanno raminghi, stringendosi nel manto notturno come in una veste ornata di stelle. Piccole luci di fiaccole serpeggiano tra le strade, dando forma a una via lattea dalle tinte metropolitane.
Quando il crepuscolo ci chiama, quando ogni giorno richiama la nostra attenzione a tutto ciò che si conclude per dar vita a un nuovo inizio, altri sembrano gli uomini che popolano la Terra, o altri gli uomini che in noi prendono vita.

Soltanto alcuni ne avvertono il mistero, coloro che vedono ombre nel buio che i molti non riescono a vedere, coloro che soli fuggono verso il Solo.



Diogene sapeva tutto questo, e proprio per questo nulla aggiungeva se non un sorriso fatto di rimando al Cielo e alla Terra, e a ciascuno fra coloro che in quel sorriso riusciva a udire tutti i suoni del mondo.
Era il crepuscolo, e alla mente poetica si aggiungeva il gorgoglìo di uno stomaco vuoto. Diogene era poeta, ma anche i poeti hanno fame; anzi ne hanno il doppio di un uomo di prosa, perché in loro assieme allo stomaco costantemente reclama la sua parte una insaziabile fame di bellezza.
Era il crepuscolo, e comunque la si voglia mettere Diogene aveva fame.
Tra le bianche pietre che pian piano assorbivano il colore della notte, Diogene se ne stava adagiato chiedendo l’elemosina.
La folla un po’ lo turbava sempre, gli ricordava quei molti che non riconoscono le ombre nel buio.



A volte Diogene guardava gli altri chiedendosi come gli altri vedessero lui.
Beh, un po’ se lo immaginava, ovviamente, ed esperienze a riguardo non gli mancavano certo. Ma quello che Diogene si chiedeva non era esattamente cosa gli altri vedessero in lui, ma cosa di lui si vedessero gli altri. Perché lui negli occhi degli altri vedeva un altro Diogene, un altro possibile sé, un cane domestico, potremmo dire.
Lui, che di randagio vestiva i panni della naturalezza, dove gli altri indossavano gli ornamenti della civiltà; lui, che di randagio possedeva la libertà di parola – della quale peraltro faceva largo uso – mentre gli altri possedevano le norme dell’etichetta; lui, che di randagio respirava l’aria fredda se faceva freddo, e l’aria calda se faceva caldo, mentre gli altri correvano al caldo se faceva freddo, o correvano al freddo se faceva caldo; lui, che di randagio aveva lo sguardo sprezzante per le comodità, pur non facendo niente che gli arrecasse una fatica inutile, e gli altri che, pur essendo indaffarati ogni istante della loro vita, agognavano senza sosta una vita fatta di comodità. Lui, che di randagio più che altro non aveva, e gli altri, che al contrario avevano, più che altro.



Chissà se loro si vedevano altri in lui, se si vedevano spogliati, messi a nudo, se si vedevano randagi. Chissà. Eppure anche se non avrebbero voluto assomigliargli esternamente – e questo Diogene lo sapeva, non era un illuso – ciò che lui portava dentro era esattamente quello che loro andavano cercando.
Ma lo si può trovare dove essi lo cercano?
Lo si può forse raggiungere come essi cercano di raggiungerlo? Diogene credeva di no.
No, non lo credeva: Diogene lo sapeva. Una bella casa, certo, non una botte. Dei bei vestiti, e non quelli vecchi di Diogene. E perché no: anche del cibo raffinato e abbondante, e non lo stomaco vuoto di un cane. Erano cose brutte, forse? No, non lo erano. Una bella casa e un bel vestito non possono essere brutti, non lo possono per definizione. E allora? Non è forse onesto aspirare a tutto questo? Non lo è, Diogene? Certo che lo è, ma ci vuole fiuto, stupidi umani!

Ecco che cosa manca agli uomini, il fiuto magistrale del cane. E nella vita senza fiuto si perde la strada.

Anche un fiore può avere forma e colori di squisita bellezza, ma quello stesso fiore può essere velenoso. Ci vuole fiuto. Diogene si vedeva un cane domestico e non si piaceva. Era più pulito, più profumato; era più in carne e più riposato, ma non aveva più lo stesso fiuto. Era più tante cose, ma era meno se stesso. Diogene era meno felice.


O virtù! Scienza sublime delle anime semplici, occorre proprio tanta fatica e tanto apparato per conoscerti? Non sono forse i tuoi princìpi scolpiti in tutti i cuori, e non basta per imparare le tue leggi rientrare in se stessi e ascoltare la voce della propria coscienza nel silenzio delle passioni? Ecco la vera filosofia. (Jean-Jacques Rousseau, non a caso sarà definito un Diogene raffinato)

È questo il grande desiderio di Diogene: trovare l’uomo, l’uomo che vive in armonia e coerenza con la sua più intima natura, al di là di tutte le convenzioni e gli artifici con i quali ha soffocato la sua autenticità. E quando diciamo che Diogene cercava l’uomo, intendiamo proprio che lo cercava fisicamente, aggirandosi in pieno giorno per le strade di Atene con una lanterna accesa in mano, inaugurando così quell'arte basata sulla provocazione che da Diogene in poi sarà l’arma filosofica prediletta dai cinici.


(Tratto da "Vita da cani" Diogene e la filosofia che morde, Niccolò Cappelli)



Leggi anche, tratto da un mio viaggio in Grecia:


John William Waterhouse, Diogene


"Perché lui aveva tutto quello che serve a uno scribacchino per salvarsi: lo sguardo primitivo che agguanta fulmineo dall'alto il suo nutrimento; la naturalezza creativa, che si rinnova ogni mattino, con cui guardare incessantemente alle cose come se fosse la prima volta e che restituisce la verginità ai secolari elementi quotidiani - vento, mare, fuoco, donna, pane; la sicurezza della mano, la freschezza del cuore, l'ardire virile di beffarsi della propria anima, come se avesse dentro di sé una forza superiore dell'anima stessa; e infine la risata limpida e selvaggia che scaturiva da una sorgente profonda, più profonda delle viscere dell'uomo, e che nei momenti cruciali esplodeva liberatoria dal vecchio petto di Zorba; esplodeva ed era capace di demolire, e demoliva tutte le barriere - morale, religione, patria - che le persone sventurate e impaurite erigevano per sfangarsela senza troppi danni nella propria misera vita" 

(Zorba il Greco, Nikos Kazantzakis) 



Leggi anche, dal Blog: 


"Un uomo? Che cosa vuol dire?" "Che sono libero"


"Devo ringraziare l'autrice 
perché Cecilia ci immerge
come una nuova Diogene 
in un percorso che forse tendiamo a dimenticare 
quello che ci riporta verso 
il tempo giusto
il momento della riflessione
del sentirci dentro"


(Alessandra Sannella - Docente in Sociologia e Politiche Sociali presso
l'Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale )

L'INTERVISTA DI ARACNE TV









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