Da quando ho visto il primo spettacolo dedicato a Frida Kahlo, non l’ho più mollato. Gianni Licata è un regista che disorienta, scompone la realtà per ricostruirla sulla scena secondo nuove angolazioni, dando spago alle corrispondenze più estrose, quelle meno banali e, dunque, anche più difficili da digerire. La vita fatta a pezzi senza indulgenze per chi la osserva, ma fruibile come un godimento estemporaneo che lascia sbigottiti e appagati al tempo stesso, insomma una forza della natura, con tutte le sue impeccabili contrarietà.
Mai come nel suo ultimo spettacolo - di cui ho avuto l’onore di assistere all’esordio ieri sera presso il teatro “Lo Spazio” a Roma (e di cui, dico subito, ci sono due repliche stasera e domani) – tale forza dirompente e sovversiva si appropria della scena, e delle identità di chi la osserva. Se poi il protagonista ispiratore del tutto è la figura di Cristo, lascio immaginare il resto. “33” è il titolo dell’opera, una piece teatrale concepita – ed è questa una delle prime cifre stilistiche di Gianni – come tableaux vivants, in questo caso idealmente collegate alle stazioni di una via crucis postmoderna da cui far riemergere il senso ultimo, e mai compreso fino in fondo, del messaggio cristiano. Troppo semplice forse, per poter essere accolto con altrettanta semplicità. Perché ai dogmi le cose semplici fanno paura, devono autogiustificarsi con concettualizzazioni ed epistemologie per poi indurre più seguaci possibili a un atto di fede che deriva dalla non comprensione. Come dire, “tutto questo è molto complesso, ma tu credici. E’ questa la fede, credere senza esperire, credere senza avere prove”. Invece no, non è questa la fede. Questa è accettazione passiva. Perchè Dio, qualsiasi divinità, non è irraggiungibile come sembra, non è in un paradiso isolato e lontano anni luce da noi. E non è nemmeno un modo di dire, se solo lo si sapesse praticare.
Ama il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro da capire, né da argomentare. C’è solo da fare. Amare tutto e tutti, indistintamente. Senza riserve alcune, senza distinzioni di sesso, razza, identità di genere, senza paura dell’Altro da sé. Luoghi comuni? Frasi fatte? Eppure qualcosa, di questo fraseggio ovvio e scontato, è stato perso per strada. Peggio ancora, non compreso. E proprio qui ci conduce il lavoro di Gianni Licata, frutto di una meditazione durata ben quattro anni.
Il Cristo portato in scena è l’Incompreso per eccellenza. E’ interpretato da una donna per lo più immobile, sagoma angelicata, presenza/assenza su un palco congestionato, invece, dai movimenti convulsi sincopati stereotipati, appositamente ipnotici, dei discepoli. Uomini e donne (bravissimi attori e ballerini) che si dimenano senza posa, sul palco ma anche ai piedi degli spettatori, un po’ vittime un po’ carnefici, rappresentando, con gettiti di visionarietà perforanti come è d’uso nel linguaggio scenico di Licata, una Umanità contrita nel suo stesso dolore disumano. Disumano perché divina è la gioia, e ce la siamo persa per strada anch’essa, dimentichi del precetto più semplice del mondo: ama il prossimo tuo come te stesso. Cristo in scena fa poche prediche, e le poche che fa sono un sibilo arrogante che sembra andare controcorrente con tutto quello che si vede e sente sul palcoscenico, merito degli efficienti testi di Fabio Filosofi del Ferro, cuciti addosso ai movimenti degli attori proprio come una sorta di contrappasso dantesco. A cui dà man forte una colonna sonora a base di techno music che fa venire i brividi (per darvi un’idea provate ad ascoltare fino alla fine questa traccia: Sacred Circle di Pete Lazonby). Cristo in scena sembra quasi subire una condanna ben peggiore della sua croce, perché vede un mondo intero finito sotto una croce, a dispetto di qualsiasi redenzione: il mondo dei traditori, il mondo fatto di conflitti, di gerarchie di minoranze, di spettacolarizzazione delle emozioni (esilarante a riguardo il tableau vivant che scimmiotta con drammatica ilarità i vari talk e reality show di turno), di mercimonio della spiritualità.
Ma veniamo alle buone notizie (visto che l’unica regola del mio blog è questa: “solo buone notizie”). Dietro a tutto questo sovvertimento funereo dei valori che piomba addosso allo spettatore inducendolo certo a porsi domande, ma di sicuro anche a divertirsi, rimane placido come una ghirlanda di fiori più che di spine, lo Sguardo Compassionevole che tutto ingloba e che tutto ama. E ci si sente accolti, come in un grembo materno di dimensioni spropositate in cui c’è spazio per chiunque e per qualsiasi cosa. “Tutto è natura se esiste nel creato”. Eccolo, il mantra liberatorio, l’ambrosia che riscatta da tanta indigesta incomunicabilità. L’ultima parola, dunque, alla Natura. Un ritorno a casa, all’origine, nel luogo zero dove non esistono differenze, dove l’etica non è un atto politico ma un moto di spirito. Dove non importa se sei uomo, donna, cristiano, musulmano, di colore, eterosessuale, gay, transessuale, diversamente abile, madre, padre, ragazza madre, figlia adottiva, figliol prodigo, traditore o incredulo, Giuda o San Tommaso. Tutto è natura se esiste nel creato e il segreto è solo uno: amare tutto, indistintamente. A cominciare da te stesso.
Informazioni per assistere allo spettacolo (30 e 31 maggio)
Teatro ''Lo Spazio'' via Locri 42/44: è una traversa di via Sannio, zona San Giovanni.
Ore 21. Biglietteria: tel. 06-77076486
Biglietti: 10 euro
Prenotazioni via sms: 333 5749714
"Maestro io amo tutti", disse una discepola.
"Dovresti amare Dio solo!", rispose Paramansaji.
La discepola incontrò il Guru alcune settimane dopo.
Questi le chiese: "Ami tu gli altri?"
"Io conservo il mio amore per Dio solo", rispose la devota.
"Dovresti amare tutti di questo amore".
Confusa la discepola chiese: "Signore, che cosa intendete dire?
Prima dite che amare tutti è sbagliato, poi dite che è sbagliato
escludere alcuno dal nostro amore."
"Tu sei attratta dalla personalità della gente, che porta a
contrarre attaccamenti limitanti", spiegò il Maestro. "Quando
amerai veramente Iddio, Lo vedrai in ogni volto umano, e saprai
che cosa significa amare tutti. Non sono le forme e gli ego che
dobbiamo adorare, ma il Signore dimorante in ogni essere umano.
Egli solo dota le sue creature di vita, fascino e individualità".
(dal pensiero di Paramansha Yogananda)
Mai come nel suo ultimo spettacolo - di cui ho avuto l’onore di assistere all’esordio ieri sera presso il teatro “Lo Spazio” a Roma (e di cui, dico subito, ci sono due repliche stasera e domani) – tale forza dirompente e sovversiva si appropria della scena, e delle identità di chi la osserva. Se poi il protagonista ispiratore del tutto è la figura di Cristo, lascio immaginare il resto. “33” è il titolo dell’opera, una piece teatrale concepita – ed è questa una delle prime cifre stilistiche di Gianni – come tableaux vivants, in questo caso idealmente collegate alle stazioni di una via crucis postmoderna da cui far riemergere il senso ultimo, e mai compreso fino in fondo, del messaggio cristiano. Troppo semplice forse, per poter essere accolto con altrettanta semplicità. Perché ai dogmi le cose semplici fanno paura, devono autogiustificarsi con concettualizzazioni ed epistemologie per poi indurre più seguaci possibili a un atto di fede che deriva dalla non comprensione. Come dire, “tutto questo è molto complesso, ma tu credici. E’ questa la fede, credere senza esperire, credere senza avere prove”. Invece no, non è questa la fede. Questa è accettazione passiva. Perchè Dio, qualsiasi divinità, non è irraggiungibile come sembra, non è in un paradiso isolato e lontano anni luce da noi. E non è nemmeno un modo di dire, se solo lo si sapesse praticare.
Ama il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro da capire, né da argomentare. C’è solo da fare. Amare tutto e tutti, indistintamente. Senza riserve alcune, senza distinzioni di sesso, razza, identità di genere, senza paura dell’Altro da sé. Luoghi comuni? Frasi fatte? Eppure qualcosa, di questo fraseggio ovvio e scontato, è stato perso per strada. Peggio ancora, non compreso. E proprio qui ci conduce il lavoro di Gianni Licata, frutto di una meditazione durata ben quattro anni.
Il Cristo portato in scena è l’Incompreso per eccellenza. E’ interpretato da una donna per lo più immobile, sagoma angelicata, presenza/assenza su un palco congestionato, invece, dai movimenti convulsi sincopati stereotipati, appositamente ipnotici, dei discepoli. Uomini e donne (bravissimi attori e ballerini) che si dimenano senza posa, sul palco ma anche ai piedi degli spettatori, un po’ vittime un po’ carnefici, rappresentando, con gettiti di visionarietà perforanti come è d’uso nel linguaggio scenico di Licata, una Umanità contrita nel suo stesso dolore disumano. Disumano perché divina è la gioia, e ce la siamo persa per strada anch’essa, dimentichi del precetto più semplice del mondo: ama il prossimo tuo come te stesso. Cristo in scena fa poche prediche, e le poche che fa sono un sibilo arrogante che sembra andare controcorrente con tutto quello che si vede e sente sul palcoscenico, merito degli efficienti testi di Fabio Filosofi del Ferro, cuciti addosso ai movimenti degli attori proprio come una sorta di contrappasso dantesco. A cui dà man forte una colonna sonora a base di techno music che fa venire i brividi (per darvi un’idea provate ad ascoltare fino alla fine questa traccia: Sacred Circle di Pete Lazonby). Cristo in scena sembra quasi subire una condanna ben peggiore della sua croce, perché vede un mondo intero finito sotto una croce, a dispetto di qualsiasi redenzione: il mondo dei traditori, il mondo fatto di conflitti, di gerarchie di minoranze, di spettacolarizzazione delle emozioni (esilarante a riguardo il tableau vivant che scimmiotta con drammatica ilarità i vari talk e reality show di turno), di mercimonio della spiritualità.
Ma veniamo alle buone notizie (visto che l’unica regola del mio blog è questa: “solo buone notizie”). Dietro a tutto questo sovvertimento funereo dei valori che piomba addosso allo spettatore inducendolo certo a porsi domande, ma di sicuro anche a divertirsi, rimane placido come una ghirlanda di fiori più che di spine, lo Sguardo Compassionevole che tutto ingloba e che tutto ama. E ci si sente accolti, come in un grembo materno di dimensioni spropositate in cui c’è spazio per chiunque e per qualsiasi cosa. “Tutto è natura se esiste nel creato”. Eccolo, il mantra liberatorio, l’ambrosia che riscatta da tanta indigesta incomunicabilità. L’ultima parola, dunque, alla Natura. Un ritorno a casa, all’origine, nel luogo zero dove non esistono differenze, dove l’etica non è un atto politico ma un moto di spirito. Dove non importa se sei uomo, donna, cristiano, musulmano, di colore, eterosessuale, gay, transessuale, diversamente abile, madre, padre, ragazza madre, figlia adottiva, figliol prodigo, traditore o incredulo, Giuda o San Tommaso. Tutto è natura se esiste nel creato e il segreto è solo uno: amare tutto, indistintamente. A cominciare da te stesso.
Informazioni per assistere allo spettacolo (30 e 31 maggio)
Teatro ''Lo Spazio'' via Locri 42/44: è una traversa di via Sannio, zona San Giovanni.
Ore 21. Biglietteria: tel. 06-77076486
Biglietti: 10 euro
Prenotazioni via sms: 333 5749714
"Maestro io amo tutti", disse una discepola.
"Dovresti amare Dio solo!", rispose Paramansaji.
La discepola incontrò il Guru alcune settimane dopo.
Questi le chiese: "Ami tu gli altri?"
"Io conservo il mio amore per Dio solo", rispose la devota.
"Dovresti amare tutti di questo amore".
Confusa la discepola chiese: "Signore, che cosa intendete dire?
Prima dite che amare tutti è sbagliato, poi dite che è sbagliato
escludere alcuno dal nostro amore."
"Tu sei attratta dalla personalità della gente, che porta a
contrarre attaccamenti limitanti", spiegò il Maestro. "Quando
amerai veramente Iddio, Lo vedrai in ogni volto umano, e saprai
che cosa significa amare tutti. Non sono le forme e gli ego che
dobbiamo adorare, ma il Signore dimorante in ogni essere umano.
Egli solo dota le sue creature di vita, fascino e individualità".
(dal pensiero di Paramansha Yogananda)
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