“All’inizio ci sono le montagne, poi non ci sono più le montagne, poi ci sono ancora le montagne” (Detto zen)
Guardando le montagne, voi cosa vedete?
A cosa credete?
A quel sentimento che, probabilmente fa breccia in un silente gemito di meraviglia improvvisa, o alla pittura della voce che altrettanto probabilmente vorrà disegnare tutte le vostre impressioni sulla tela bianca di un momento da condividere con qualcuno …
E allora La montagna diventa l’Interpretazione della montagna, la “vostra” montagna, la “nostra” montagna, la montagna verde, pacifica o terrifica, bella, intensa, raccapricciante, sgomenta, irresistibile, padrona della nostra percezione, dei sentimenti che ci suscita, della nostra emanazione sensoriale, dei commenti, delle gioie o dei dolori condivisi, di magie al chiaro di luna… Montagna degli amanti, dei sognatori, dei poeti, degli scalatori, dei mistici che meditano nelle sue più scomode e remote cavità …
Poi c’è una montagna che fa breccia in un luogo indefinito del “nostro” corpo sottile, quando un silenzio raggiante ci commuove aprendoci a confidenze più intime, talmente intime da essere universali. L’intimità non è data tanto dall’annullamento di distanze, quanto dalla presa di posizione della profondità. Tu ed io non siamo intimi perché ci abbracciamo, baciamo e magari facciamo anche l’amore, ma perché tu ed io smettiamo di esistere l’uno di fronte all’altra e, miracolosamente, accadiamo. Perché non c’è presa tra di noi, ma solo contemplazione. Lasciare che le cose, semplicemente, siano. Io, tu, noi. Non io, non tu, non noi.
Universo che si svela. Lasciare che le cose, semplicemente, siano.
Avete mai provato a contemplare davvero una montagna?
Senza metterci altro… Senza stare nei vostri panni, in quello che credete di essere, di vedere… Uno scalatore molto probabilmente sarà rapito dalle cime che vi scorge e da esse si lascerà maggiormente entusiasmare… Un esperto di botanica, sarà tentato dal notare o anche solo immaginare tutte le specie del mondo vegetale presenti nei sentieri. Il solitario ne carpirà gli accenti misericordiosi o malinconici, come sospiri del vento. Quanti confini… Solchi prestabiliti… Confidenze risapute. Riletture del già-noto.
Da questa prospettiva, il mondo è reale.
Ma possiamo fidarci di quel presentimento iniziale, iniziale perché originario, quello che rende la montagna maestosa sullo sfondo della perfetta vacuità. Una montagna non definibile non è più un oggetto “a nostro uso e consumo”, è un traghettatore di visione, l’indicatore della luce di provenienza, l’approdo alla dimora da cui pensiamo di essere separati e che invece è lì, nel nostro stesso sguardo.
È lì, nel nostro stesso sguardo.
La visione contempla la pura esistenza.
Non c’è nient’altro che visione. Una visione che si compie nell’ascolto.
Da questa prospettiva, il mondo è irreale …
C’è uno stato naturale della mente in cui le cose vengono riassorbite come una sorta di dissolvenza languida che non lascia un senso di mancanza, piuttosto genera pienezza. Uno stato non-stato dove ricominciare da zero, ogni istante. Nuovo di zecca, senza memoria, senza tempo né spazio. In questo spazio quieto, contemplativo, impersonale, globale, che fine fa la montagna, secondo voi?
Non c’è bisogno di fare piazza pulita del mondo, le cose hanno una loro intrinseca necessità e insondabile bellezza, tutte le cose hanno una loro luce in quanto emanano dalla luce, sono scritte su un foglio bianco, dipinte su una tela immacolata.
Sta a noi scegliere di concentrarsi sulle cose o contemplare quella tela.
Le cose passano, vanno e vengono, fluiscono, impermanenti.
La tela della coscienza è la pergamena della vita immortale. Si può essere nel mondo senza essere del mondo.
Ed allora, eccole, le montagne splendenti davanti a noi, che appaiono nella totalità.
Ed allora, ecco che faccio un passo indietro, da dove questo accenno di articolo ha preso vita, parole che deposito qui, al fondo del testo, nella pazienza traslucida dell’attesa di compiersi:
Una strana melodia invita le mie parole di oggi a sradicarsi da un qualsiasi tema per prendere forma quasi spontaneamente alla maniera di un equilibrista in bilico tra l’andare e lo stare fermo salvo che nell’immobilità il rischio di cadere è praticamente certo… non c’è traccia in questo sgambettio delle dita sulla tastiera, non c’è direzione, eppure qualcosa sta accadendo, aleggia negli spazi vuoti tra un punto e l’altro dello schermo su cui ad occhi bassi si adagia una sorta di non attenzione.
“Il vero ascolto non può essere migliorato nè perfezionato in quanto esso è di per se stesso perfezione; si rivela quando la mente è colpita da meraviglia, quando non fa più riferimento al benchè minimo oggetto. In seguito questa pienezza può essere erroneamente attribuita a un oggetto, ma colui che è consapevole della vera prospettiva, sa che la causa di questa pace non si trova in un oggetto, ma è un puro riflesso del silenzio, di ciò che “è”. L’ascolto sorge dallo stupore verso il quale esso punta, è uno stato in cui non c’è proiezione, dove niente appare, come se improvvisamente aveste aperto la finestra di una stanza buia, e una volta che essa è stata inondata di luce, allora tutto diventa chiaro in un istante“
(Jean Klein)
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