Vado
subito al sodo. Al di là di tutte le possibili critiche o valutazioni
cinematografiche riguardo all'interpretazione dell'attore Rami Malek, alla sua
verosimiglianza etc. o ad altre valutazioni più da addetti ai lavori, quello
che a me è rimasto impresso durante e dopo aver visto il film, è una tonalità
di fondo.
Una nota dominante e sublime, universale, ineccepibile,
inarrestabile: quella della Musica (con la m maiuscola sì, perché di capolavori
che hanno fatto storia stiamo parlando) e quella dell'anima di un essere umano
con tutte le sue problematicità. Che sono sue ma non solo sue, squisitamente
peculiari alla biografia di Mercury ma anche garbatamente riverse su tanti
destini di chi, per un motivo o per un altro, avverte nel suo percorso
esistenziale “chiamate” nude e crude a cui fanno eco senso di solitudine,
inadeguatezza, diversità, pericolosità, sconforto, noia ed eccitazione. Con esiti
spesso nefasti.
Eppure ... The Show Must Go On! La vita va avanti, spettacolare
nella sua ineluttabilità che, in certi casi di individui marchiati ad uscire
dall'anonimato per compiere il proprio destino, come Freddie in questo caso,
ammanta la determinazione con un non so che di crudeltà. Mi viene in mente Antonin Artaud e il suo "teatro della
crudeltà", sorretto proprio da questo substrato invisibile ma palpabile di
"inellutabile necessità".
“Avrai una vita molto difficile Freddie” – sussurra Mary Austin a Freddie quando
proprio lui, l’amore della sua vita, le confessa con audacia e sincerità la sua
natura più profonda, ammettendo di voler essere sé stesso fino in fondo,
vivendosi appieno la sua bisessualità. Una delle scene questa – tra le tante
per la verità - a mio avviso molto toccanti del film. Solo lo sguardo di un
amore vero può cogliere certe profondità andando oltre la sofferenza personale.
Mary Austin rimarrà sempre nella vita di Freddie più di un punto di
riferimento, e viceversa, quella controparte energetica mi viene da dire in cui
fondersi al di là di ogni apparenza, definizione o ambiguità. Un legame che per
certi versi ricorda quello del poeta Rilke con Lou Von Salomé,
qualcosa che perdura anche dopo il lasciarsi andare e nonostante le nuove
relazioni affettive di entrambe le parti.
Essere
sé stessi fino in fondo, costi quel che costi, richiede coraggio.
Il primo
passo per essere all'altezza dei propri destini è non vivere nella menzogna. L’arte
dell’abitare la propria autenticità, buona o cattiva sia allo sguardo di una
morale socialmente condivisa (o imposta), non è per tutti. Freddie Mercury l’ha
fatto, e attraverso di lui si è compiuto il disegno musicale di una band che ci
ha lasciato melodie indimenticabili. E attraverso gli altri componenti della
band, Freddie è uscito fuori quale realmente era, l’animale da palcoscenico che
vuole dare piacere, il performer (così si definiva lui stesso e viene rimarcato
anche nel film) in grado di cambiare lo spessore dell’aria a ogni passo e gesto
che compie … Il piacere è la vita che danza melodiosamente scomposta tra sogni
personali di gloria e cospirazione universale.
Di nuovo, eccola, quella tonalità
di fondo a cui mi riferisco pensando al film Bohemian Rhapsody e che mi è rimasta vibrante
addosso anche nei giorni dopo aver visto il film, la visione che ruggisce nell’intraprendenza
degli impavidi; una lucida follia che indossa le vesti di un uomo dalle origini
indiane, dall’identità sessuale promiscua, dai tratti somatici innegabilmente irregolari
e dalle corde vocali imbevute di grazia.
Un uomo che anche di una sua imperfezione ha saputo fare poesia e talento, convertendo in tesoro il fatto di essere nato con 4 incisivi in più e dunque, a detta sua, avere più spazio nella bocca e una maggiore estensione vocale.
Un uomo con un destino da
gigante che a tratti lo ha schiacciato, a tratti sollevato fino a farlo volare,
fino a farlo sentire infallibile, una hýbris prometeica che è “costata” al
nostro eroe la trasmissione del virus dell’HIV e la conseguente morte a soli 45
anni, ma non la fama. E nemmeno l’umanità.
La profonda umanità del Freddie
Mercury che era già Leggenda è quanto a mio avviso rende straziante in senso
epico la performance del celeberrimo concerto dell’86 allo stadio di Wembley, con
cui termina il film e così minuziosamente reso fedele all'originale.
Il bacio promesso
e reso alla madre durante la diretta, è un tocco intimista, più che fanciullesco, da far venire gli occhi lucidi all'istante. Un dettaglio restituito nel film
cui vale la pena soffermarsi, non foss’altro per la sensibilità con cui è stato
restituito. Il sipario delle riprese cinematografiche non può che chiudersi con
quello che è stato uno dei concerti più famosi di sempre, e non solo dei e per
i Queen.
Ai
titoli di coda, dopo tanto Rami Malek Mercury a cui ci siamo ormai abituati, compare
lui, l’originale, il “vero” Freddie, Farrokh Bulsara Mercury che, in
piedi con una mano sul pianoforte canta Don’t Stop Me Now.
L’emozione prende il
sopravvento. Tornare all'Origine, e agli originali, fa sempre bene!
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