13 settembre 2015

Il significato esoterico di Avatar e Pandora


Avatar, colossal del 2009 firmato James Cameron. Un film che ho molto amato a suo tempo quando mi cimentai con la prima visione in 3D della mia vita, ma che ho apprezzato ancora di più rivedendolo recentemente in dvd, forse nemmeno del tutto consapevole delle nuove intuizioni che ne sarebbero scaturite. 



Che altro è Pandora se non la “terra di mezzo” definita dagli yogin tantrici la “medesimezza”, la mitica Shambhala, il luogo liminale della Grande Soglia dove si entra in contatto con gli spiriti che altro non sono se non aspetti impalpabili e invisibili di noi. 
Che altro è il viaggio dell’ex marine invalido Jake Sully se non il coraggioso e inevitabilmente terrificante incontro con le sue parti più selvagge, incontrollabili, le zone d’ombra, le paure, rappresentate da Neytiri, guerriera dell’etnia Na’Vi di cui finirà per innamorarsi. E questa sarà la sua salvezza definitiva. 
Perché non c’è vera salvezza, guarigione e libertà più grande che quella di scegliere di amare i propri lati oscuri riconoscendoli per quello che sono: apparizioni prive di sostanza oggettiva, sogni, energie da integrare, forze da ritualizzare celebrando così il matrimonio mistico, emblema e compimento della Grande Imago, l’espressione cioè dell’incontro di luce e ombra, di vita e morte, unione per eccellenza che si trova nella radice del termine sanscrito yug, da cui deriva Yoga (unire, unificare). 
I due alla fine celebreranno la loro unione d’amore, lui sceglierà di rimanere a Pandora con un atto estremo di rinuncia a sé (cioè alla sua personalità, la sua vecchia vita invalidante) per darsi all'amore più pericoloso, folle, imprevisto e imprevedibile che potesse capitargli. 
E questo amore lo salva. “Perché la vera conoscenza si risveglia nel momento del dolore” e “perché così deve essere l’amore: improvviso, irragionevole, travolgente!” 
(Thónbàn Hlá)

Solo il cuore può aiutare la ragione
a compiere il sacrificio di sé,
sacrificio che è al tempo stesso
il suo trionfo e il suo compimento”
(da Yogin e Sciamano)



Nel suo atto di abbandono totale all'amore – che è anche sposalizio divino con la sua parte selvaggia (la donna Na’Vi), tra maschile e femminile, razionalità e senso mistico – egli rinasce a nuova vita, la vita da Na’Vi nella terra dove a comandare è lo spirito di Eywa, la Grande Madre, dove vigono le leggi naturali del ritmo e della Bellezza, dove le piante sono fluorescenti, i rami degli alberi diventano amache, la natura rigogliosa è in uno stato di grazia supremo e i suoi abitanti custodi ne sono altrettanto nutriti, accuditi…
La prima cosa che deve imparare l’Avatar-Jake non appena rimane solo per una notte intera nella foresta (la notte oscura dell’anima), è comunicare con questo Spirito della Grande Madre Eywa, ovvero con il lato invisibile delle cose, affinare i sensi, le percezioni, stare all'erta in uno stato sempre vigile perché ogni minimo passo falso quella notte sarebbe risultato fatale. 
È il suo momento iniziatico di Bardo, il limbo tra la vita e la morte, la discesa nel mondo infero, in Ade, ovvero nella parte più imperscrutabile e oscura di se stesso. 
Solo dopo il paziente addestramento di Neytiri (che rappresenta la sua anima selvaggia) quel luogo alla prima terrificante e denso di agguati, si trasformerà in un magico mondo incantato colmo di accoglienza e complicità. Con l’ascolto del richiamo della sua anima selvaggia è avvenuta la trasmutazione alchemica nel ciclo naturale Vita/Morte/Vita
La guerriera Neytiri lo addestrerà subito all'attenzione, a muoversi danzando nei ritmi della madre terra, all'ascolto dei suoni della foresta, dei piccoli e grandi rumori, di ogni minimo segnale proveniente da quel mondo ancestrale, selvatico, intriso di energie sottili, di magia ma anche di tranelli. L’attenzione è la prima qualità di qualsiasi approccio sciamanico alla vita, ovvero di comunione totale con le forze della natura. “Lo sciamanesimo è attenzione” e quello che Neytri trasmette a Jake è la capacità di intuire nell'universo la presenza di una volontà cosciente.

Immancabili in questo viaggio dell’eroe verso l’accoglienza totale e definitiva della sua sposa selvaggia celeste/sotterranea, i tanti momenti di ritualità, perché il rito è riportare le cose all'equilibrio primevo quando l’ordine universale viene rotto; immancabile il momento della complicità erotica, perché l’eros è energia creativa, dionisiaca, intrinsecamente naturale; immancabili le sfide iperboliche (come quella di dover domare il mastodontico Leonopteryx Toruk, la più grande creatura volante di tutti i cieli) perché “la grandezza di un uomo non sta, forse, nel sentire la propria vacuità e nell'offrirsi ai propri limiti?” (Thónbàn Hlá). 




Di sicuro, una delle frasi più belle del film che suona come un potente mantra all’apice della trasformazione del nostro eroe è questa:
A volte tutta la vita si riduce ad un unico, folle gesto”.
È il momento in cui l’Avatar-Jake decide di intraprendere con il sostegno di tutta la tribù dei nativi, la battaglia contro la RDA, la compagnia interplanetaria terrestre per la quale lavorava e che voleva distruggere Pandora. 
Nell'eroe che ha sposato il richiamo dell’anima, si compie la trasvalutazione dei valori: i nemici da abbattere non sono più i selvaggi, ma gli umani che devastano la Grande Madre. 
Il cammino del fare anima diviene necessariamente un cammino di ecologia profonda. Un viaggio nella Medesimezza tanto inesorabile quanto infallibile.
“La medesimezza è l’acquietarsi del vento degli opposti,
il non avere paura, il non voltarsi indietro,
la forza di restare, di guardare, di vedere,
di accogliere l’esperienza che deve accadere”.

(da James Hillman. Il cammino del “fare anima” e dell’ecologia profonda)
È il campo di battaglia e la corsia preferenziale degli outsider coloro i quali, proprio come l’eroe di Avatar, sfidano arditamente i propri limiti, non si arrendono mai, non stanno dentro ai ruoli e ai comportamenti prestabiliti. E così compiono atti di vera rivoluzione spirituale.

Non sarà un dettaglio notare che il colore blu degli Avatar di Cameron richiama molto da vicino le raffigurazioni delle divinità del pantheon induista, e di Shiva in particolare il quale, leggenda vuole, prese su di sé il veleno di Vasuki che minacciava il mondo, tenendolo nella sua gola dove lo terrà sempre per salvare la terra. Per questo il dio è anche noto come Nilkantha, “gola blu”



Shiva è il dio tantrico per eccellenza, l’androgino (Ardhanarishvara) e il selvaggio (Bhairava) che ama frequentare i luoghi più desolati, impervi e terrificanti della natura perché egli insegna a trarre forza dalla selva e a incanalare dentro si sé le energie per sublimarle e pacificarle o per fluirle e potenziarle. 
Torna prepotente l’immagine della foresta – così preponderante nel film Avatar – quale dimensione sacra insieme concreta e simbolica in cui affrontare i propri demoni, accogliendoli e sfidandoli a colpi di amore. E per amore Jake decide di morire, abbandonando il suo vecchio corpo per vivere definitivamente nella sua forma di Avatar, quella che lo ha portato a una libertà più grande, universalizzando la propria coscienza nel risveglio alla divinità interiore
Il termine Avatar, d'altronde, vuol dire proprio questo: “Dio nell'uomo”.

“La vera nascita è la seconda,
la vera madre è la seconda,
la vera vita è la seconda”




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