"Una continua sborniatura celeste"... Incantevole scorcio tra il visibile e l'invisibile in quella piega dell'esistenza che ha nome Vita.
L'incompiutezza di questa ultima opera teatrale di un Luigi Pirandello ormai morente rende forse ancora più giustizia, nel caso ce ne fosse bisogno, al senso intangibile de "I giganti della montagna".
Incantevole scorcio tra il visibile e l'invisibile in quella piega dell'esistenza che ha nome Vita.
Magistrale evocazione di quegli orli in cui e da cui soffia l'Anima che anima le forme. Perché le forme sono morte - riecheggia così tutto il dramma teatrale - e i corpi sono forme e sono corpi morti come burattini inanimati, fintantoché non ribolle il magma informe del movimento vitale.
Gli orli. Fessure invalicabili, se ragionate.
Un abisso che non ammette voluttà aristocratiche e astuzie mentali.
Orli non cuciti, dai quali le storie personali non si rammendano ma si rammentano, orli di memorie, abissi di coscienza di cui l'unico portavoce possibile rimane il Poeta, il Mago, il fuori luogo e fuori tempo, l'Outsider, che con il suo canto intona le vicissitudini dei fantocci con i quali la personalità riveste la vita messa in scena, e li trasfigura nell'opera stessa di creare.
Il mago Cotrone - enigma vivente nella pièce di Pirandello - porta alle estreme conseguenze l'urlo recondito di chi ha compreso che la vera vita passa dallo spirito misterioso che anima le cose e non dalle cose che "ragionevolmente" l'uomo pensa di conoscere, e sfocia quasi come una ineluttabile necessità nel ritiro del visionario dal mondo. Quasi che non fosse possibile salvezza alcuna per i sogni risveglianti, le potenti visioni che scaturiscono come "libero avvento di una nuova nascita necessaria", se gettate in mezzo agli uomini "ragionevoli" (i Giganti), uomini cioè che hanno perso la visione poetica della vita, incastrati nell'utopia del libero arbitrio e inariditi dall'adesione a una dimensione di esistenza solo materiale, antiestetica, senza né arte né poesia né anima.
"Su, svegli, immaginazione!
Non mi vorrete mica diventar ragionevoli!
Pensate che per noi non c'è pericoli, e vigliacco chi ragiona!
Perbacco, ora che vien la sera, il regno nostro!"
(Cotrone)
Non mi vorrete mica diventar ragionevoli!
Pensate che per noi non c'è pericoli, e vigliacco chi ragiona!
Perbacco, ora che vien la sera, il regno nostro!"
(Cotrone)
Il libero avvento sta al libero arbitrio come la Grazia all'Obiettivo.
La vita accade quanto meno si interferisce - ragionando - con i "suoi" programmi.
L'accadimento (e non il voler ottenere qualcosa) è lo stato naturale, poetico, magico della corrente di vita.
L'originalità ha sempre a che vedere con lo smascheramento.
L'originalità ha sempre a che vedere con lo smascheramento.
L'intuizione non si arrende all'evidenza, piuttosto si arrende alla non evidenza, ovvero a quell'"invisibile evidente" per dirla con i mistici orientali che Cotrone, con quel suo cappello da turco o da danzatore sufi, un po' ricorda...
Cotrone non vorrebbe che l'Opera (la Poesia e, per estensione, la visione poetica risvegliata intuitiva) fosse data in pasto agli uomini, ma che rimanesse nel luogo non luogo della Villa Scalogna (che ha non poche assonanze con La Scarzuola di Tomaso Buzzi) , ai piedi della montagna nel bel mezzo del nulla, dove un popolo strampalato di mendichi, artisti, attori, ballerini, anziani con visioni estatiche, donne gravide danzanti nei boschi a luna piena (gli Scalognati) se ne fa Custode senza pretese di sceneggiatura ma solo semplicemente, vivendo, incarnando l'Opera, anzi nemmeno l'Opera compiuta, ma lo spirito stesso che rende possibile ogni sua manifestazione.
Come? Rimanendo nell'apertura del possibile non usuale, aperti all'apertura stessa, dandosi spazio e dimorando in spazi aperti di pura percezione, aperti a quello che René Guénon chiama la "onnipossibilità".
L'ambiente in cui il Mago Cotrone e i suoi amici vivono, in mezzo alla montagna circondati da natura, silenzio e pochissime comodità, non è forse una metafora di questa Apertura che si svela, più in prossimità dell'essere che dell'apparire?
Come? Rimanendo nell'apertura del possibile non usuale, aperti all'apertura stessa, dandosi spazio e dimorando in spazi aperti di pura percezione, aperti a quello che René Guénon chiama la "onnipossibilità".
L'ambiente in cui il Mago Cotrone e i suoi amici vivono, in mezzo alla montagna circondati da natura, silenzio e pochissime comodità, non è forse una metafora di questa Apertura che si svela, più in prossimità dell'essere che dell'apparire?
"Siamo qua come agli orli della vita, Contessa.
Gli orli, a un comando, si distaccano, entra l’invisibile: vaporano i fantasmi.
E cosa naturale. Avviene ciò che di solito nel sogno.
Io lo faccio avvenire anche nella veglia.
Ecco tutto. I sogni, la musica, la preghiera, l’amore…
Tutto l’infinito che è negli uomini,
lei lo troverà dentro e intorno a questa villa."
La Contessa Ilse interpretata da Federica Di Martino |
In seguito lo spiraglio offerto dalla Contessa Ilse fedele alla sua missione di "portare la Poesia, l'opera, tra gli uomini", getta una luce possibilistica sull'avvenire degli uomini dormienti. Che il potere salvifico dell'Arte, visione estetico-estatica, folle e visionaria, corroda le ultime resistenze che rendono ciechi gli uomini "ragionevoli"?!
"Non bisogna più ragionare. Qua si vive di questo. Privi di tutto, ma con tutto il tempo per noi: ricchezza indecifrabile, ebullizione di chimere. Le cose che ci stanno attorno parlano e hanno senso soltanto nell'arbitrario in cui per disperazione ci viene di cangiarle. Disperazione a modo nostro, badiamo! Siamo piuttosto placidi e pigri; seduti, concepiamo enormità, come potrei dire? mitologiche; naturalissime, dato il genere della nostra esistenza. Non si può campare di niente; e allora è una continua sborniatura celeste. Respiriamo aria favolosa. Gli angeli possono come niente calare in mezzo a noi; e tutte le cose che ci nascono dentro sono per noi stessi uno stupore. Udiamo voci, risa; vediamo sorgere incanti figurati da ogni gomito d'ombra, creati dai colori che ci restano scomposti negli occhi abbacinati dal troppo sole della nostra isola. Sordità d'ombra non possiamo soffrirne. Le figure non sono inventate da noi; sono un desiderio dei nostri stessi occhi".
(Cotrone)
L'ultima frase che si ascolta, prima della chiusura del sipario è quella pronunciata dalla Contessa Ilse dopo il fragoroso passaggio dei Giganti che par punteggiare l'inizio di una nuova sfida: "Io ho paura", ammette Ilse, Colei che accoglie la chiamata di farsi portavoce di poesia tra chi ha interrotto il dialogo con l'anima.
Certo, ci vuole coraggio a farlo, e ad essere totalmente se stessi, a incarnare visioni alternative, a farsi interpreti di vocabolari d'amore denudati dalle molteplici apparenze con cui di solito si rivestono i linguaggi dell'ordinaria sonnolenza. Bestemmie di ben poca autenticità!
Il monito centrale del testo pirandelliano rimbomba proprio come il frastuono della cavalcata finale dei giganti della montagna: "Nella vita incontrerai molte maschere e pochi volti."
Teatro Carignano, Torino - 21 novembre 2019 |
Instagram @ceciliaisha
Gabriele Lavia, regista dell'opera e attore nel ruolo di Cotrone |
«Quest’opera è un abisso, una vertigine», dice Gabriele Lavia, che dopo Sei personaggi in cerca d’autore e L’uomo dal fiore in bocca chiude un ideale trittico pirandelliano con I giganti della montagna, testamento artistico del drammaturgo siciliano, il suo testo più astratto e metafisico e sintesi più alta di tutta la sua poetica. Lavia incornicia la trama onirica in un allestimento che combina grandiosità scenografica e coreografica (in scena con lui un cast imponente, con ventidue artisti tra attori, musicisti, mimi e danzatori)." Continua a leggere sul sito ufficiale del Teatro Stabile di Torino.
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