Mi hanno sempre detto che ero forte. “Hai un fisico esile ma sei forte dentro. Dai su Cecilia, sei forte tu”. E io a incassare senza comprendere, a ripetermi che forse sarebbe stato meglio avere un fisico più robusto ed essere debole, potermi permette di essere “debole”. Perché tutta questa forza, che mi veniva riconosciuta sin da quando ero piccola e io invece mi sentivo frantumare dentro, non mi lasciava in pace, non era pace ma guerra, antagonismo, quasi una condanna. Non la comprendevo, o meglio, non la riconoscevo, non la lasciavo agire e dunque mi lasciavo agire perché mi ero messa in testa che fosse la mia più grande sciagura, il mio più potente nemico era dentro di me, il demone che non amavo nemmeno un po’: forte come un uomo. Sì ma io ero una donna, una bambina, una adolescente, un’esile canna piegata dal vento. Forte come un guerriero, un samurai, un cavaliere, un supereroe. E la mia anima si nutriva di queste immagini avvolgendo il mio corpo da donna con coccole non troppo tenere, il mio corpo da donna mai eccessivamente marcato. Longilineo, senza troppe formosità, da eterna adolescente, androgino e quasi inconsistente, sembrava potesse evaporare da un momento all’altro e che a un soffio di vento un po’ più deciso avrebbe potuto spiccare il volo portandomi via, l’esile canna avrebbe potuto non piegarsi bensì spezzarsi… Ma poi, poi c’era sempre la famosa Forza, quel tormento che non aveva nome ma che so, ora lo so, seguiva le spietate “istruzioni” del Daimon – quell’attitudine per la quale si nasce e che attende solo di essere celebrata, chiamatelo destino se vi piace di più, o Dharma strizzando l’occhio allo yoga.
La mia precoce esperienza dell’androginia, sia fisica che psicologica che spirituale, è solo una traccia per me, una delle immagini su cui ho dovuto più insistentemente metterci il cuore, azzerando preconcetti, schemi educativi familiari, religiosi, culturali ecc. E se decido oggi di trascrivere queste parole più simili a una confessione, nell'articolo di marzo dedicato alle donne, è per donare una suggestione che su di me ha avuto un effetto conciliante molto profondo, dove per conciliante non intendo rassicurante (il Daimon che si svela, i demoni che ti chiedono di essere riconosciuti non lo sono mai) ma ri-unificante: essere integrale non vuol dire difendere né il maschile né il femminile ma accoglierli entrambi dentro di sé perché è di questo che siamo fatti, di opposti che si compenetrano ininterrottamente e l’equilibrio non sta mai nel fermarsi da qualche parte, ma nel compiere piccoli movimenti che ti mantengono al centro. A volte più che piccoli movimenti sono veri e propri tsunami, ma questa è un’altra storia. Trovare il mio centro ha voluto dire passare per una sorta di decostruzione linguistica ontologica: dare un nuovo nome a quella forza alla quale imputavo la mia non libertà di poter cedere, di poter “essere debole”. Dare un nuovo nome, non una nuova definizione beninteso, ma nome: Numen, termine latino per esprimere la potenza divina, senza scomodare il Nomen Omen l’inciso che suona più o meno come “il destino nel nome” e il biblico “In principio era il Verbo”.
Come mi vedevano gli altri non era altro che la mia stessa visione terrificante dalla quale fuggivo, era un’altra immagine creata dall'anima affinché ne esperissi la potenza distruttiva e costruttiva al tempo stesso, anticonvenzionale, maschile e femminile, senza attaccamento per nessuna definizione, con la piena fiducia dell’essere esattamente come e dove dovevo essere: niente da guarire, definire, catalogare, tutto da amare, da rivelare, da potenziare. Ed allora, solo allora, dalla mia nudità esasperante senza alcun appiglio né definizione sessuale, mi sono rivestita di tutti i gioielli che non avevo mai osato indossare (perché a volte si ha paura di essere alla propria altezza, che non è questione di altitudine ma di espansione, poter contenere qualsiasi cosa): vulnerabilità, fragilità, tenerezza, sensibilità, ma anche giocosità, irruenza, insensatezza e follia… follia… follia…
Eccoli, i nuovi nomi, i Numina del mio femminile sacro.
Eccola, mi sono detta, la forza del mio essere donna (THA): quella luna che a volte si vede a volte no. La forza della mia debolezza, l’amazzone al galoppo. Amazzone magari ferita, ma libera di ascoltare il vento. Ed eccola, la forza del mio essere uomo (HA) – no, nessun supereroe: quel compagno che lascia essere la sua donna incontenibilmente se stessa, senza alcuna pretesa, timore o speranza, quell’ardore che mantiene in vita i sogni di lei e non il fuoco che li incenerisce, la forza di volontà che sostiene l’incedere creativo e irrazionale della sua controparte femminile. La bellezza degli amanti divini eternamente congiunti nell'abbraccio erotico: non hanno altro a cui tendere se non l’abbraccio che li fonde. Distinti ma non separati.
Vale sempre la pena ricordare che Yoga non vuol dire che questo: Unione.
“Smettila di pensare che devi migliorarti, incomincia a celebrare ciò che sei, così come sei… la storia che ti racconti e che racconti agli altri è divertente, potente, meravigliosa. È una operazione sciamanica, non psicologica, è una operazione estetica, non anestetica o terapeutica, è rituale, non teoria” (S.C.W.)
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