06 maggio 2004

Libia, metti un suq all'imbrunire

Donna nella Medina di Tripoli ©Cecilia Martino

Tengo tra le mani un taccuino di viaggio. Leggo alcune righe scritte a penna, ricordo molto bene, in un albergo di Bengasi, in una tiepida sera di maggio, durante un tour lungo la costa libica che mi avrebbe portato alla scoperta delle meraviglie della Cirenaica e della Tripolitania: 

“Suq di Tripoli di sera: semi chiuso, buche e passi veloci, pertugi di merci alimentari, barbieri e venditori seduti con lo sgabello di fuori. Odore di brace a un banco di carni. Lo scalpitio dei carretti ambulanti, la strada non affollata, il buio pesto e poi d’improvviso le lucine negli anfratti con qualche negozietto aperto. Il suq all’imbrunire. L’eco del muezzin. Africa vera”… 

Vista di Bengasi dal mio albergo ©Cecilia Martino

Affacciandomi alla finestra di quell’albergo, godevo di un irresistibile panorama cittadino: miriadi di “padelle bianche” – le antenne paraboliche – agganciate, se non semplicemente poggiate, su agglomerati di alloggi fatiscenti. E ripensando al suq di Tripoli, ho colto in un unico sguardo quel sublime “contraddittorio libico” che l’incivilimento tecnologico rende addirittura paradossale. Più che una città, Bengasi è un teatro umano di tutto quello che resta della guerra, fuori da ogni itinerario turistico; tra le macerie giocano bambini con la palla, sull’asfalto donne con i loro banchi di coloratissimi sash, guardano sospettose qualunque “straniero” e rifiutano energicamente di farsi fotografare. 

Uno scorcio nel suq di Bengasi ©Cecilia Martino

Qui il turismo è un’intrusione, ai bambini insegnano a non accettare mance in cambio di fotografie in nome di uno scambio culturale che rischia di avere il senso dell’effimero, eppure funziona. Bambini per strada –  e dove altrimenti? – ce ne sono tanti che, non appena vedono usare una fotocamera digitale, impazziscono di eccitazione. Si mettono in posa davanti all’obiettivo, vogliono farsi fotografare per poi rivedersi nel monitor del piccolo miracolo tecnologico di cui sono stati testimoni e protagonisti. Effettivamente, non vogliono niente in cambio, un’altra foto magari, e così all’infinito.

A Tripoli è diverso. La capitale della Libia, finito l’isolamento dell’embargo, ha in serbo il fascino ambiguo di una realtà turistica in forte evoluzione, crocevia della rotta sul Mediterraneo. Qui per trovare la vita vera bisogna spingersi al suq della Medina (la città vecchia), all’imbrunire sì, ma non solo. Alla mattina, quando comincia il mercato, si può essere inghiottiti dalla più goliardica delle commedie umane, letteralmente invasi da una miscellanea di volti, suoni e odori senza soluzione di continuità. Quando ho scritto quelle frasi sul taccuino, non avevo ancora assistito allo spettacolo estenuante del mercato della mattina al suq di Tripoli. 

Il suq è per definizione la quintessenza dell’etnico, qui si trovano i prodotti locali in tutte le salse, spezie di ogni colore, estrosità indigene, si assiste alla compravendita di qualsiasi cosa, si scontrano corpi fruscianti avvolti dal sash odor di cumino, si incrociano facce urlanti di venditori ambulanti con il carretto incorporato che incalza dietro ogni passo. Una donna anziana appoggiata a una porta, urla con enfasi scomposta qualcosa di indecifrabile e inarticolato, tenendo il pugno serrato e alzato. Ha un non so ché di rivoluzionario e anacronistico al tempo stesso. Qui si smarrisce il senso dell’avanguardia appena percepita lungo la via principale, quella dei negozi alla moda e delle librerie per intenditori, quella dei palazzi imponenti stile mussoliniano, la spina dorsale della Tripoli che ama gli italiani. Tra le moschee, i founduk, i banchi congestionati del suq, vive la Tripoli che ama se stessa nelle sfaccettature meno composte di una città araba nell’animo. 


Il suq ha ritmi veloci, il mercato ha le sue regole. Mi lascio ipnotizzare dai contrasti cromatici di un profumatissimo banco di spezie, mentre il “venditore di origano” espone su un tappeto per terra la sua pregiata mercanzia. C’è più gente per terra che dentro i negozi. L’effusione di aromi nell’aria rarefatta da tanta condensazione umana, agisce come un dilatatore sensoriale. E’ come fumare il narghilé strada facendo, assaporando angolo dopo angolo il retrogusto sempre diverso di una moltitudine etnica. 


Rientrando in albergo, a Tripoli, eccolo di nuovo lo smarrimento del contraddittorio. Il suq appena vissuto si trova proprio lì, a pochi metri dal gigante architettonico cromato oro cinque stelle extra lusso che mi ospita: il Corinthia Bab Africa Hotel, recente vanto della capitale libica. Dalla finestra questa volta vedo le “cinque torri”, il cuore pulsante della Tripoli commerciale. Il regno del business. La gigantografia a colori dello spirito arabo si dissolve nei riflessi delle pareti insonorizzate dove si ostenta il fascino globalizzato del lusso. 

Tripoli, le 5 Torri


Instagram @ceciliaisha


Libia, maggio 2004 


Io alle prese con i bambini incuriositi dai loro ritratti nella macchina fotografica . 
Al tempo non esistevano smartphone, avevo uno dei primi modelli di camera digitale prestatami dalla redazione. La pesantezza di quell'accrocco l'ho dimenticata, la gioia di quei bimbi no.


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