01 maggio 2015

Wabi-sabi, Raku e l’indefinibile leggerezza dell’essere

 

Avete mai guardato la vita da vicino? 

L’essenza delle cose non è logorroica. L’essenza delle cose è simile al silenzio, è nella pausa tra due o più parole, è nella pausa dal rumore del mondo… 

In tal senso la lingua giapponese è uno scrigno di gemme preziose con quel suo concentrare in pochissimi ideogrammi una quantità indescrivibile di concetti per lo più da cogliere intuitivamente

Se è vero che il linguaggio crea la realtà e la realtà del mondo è una costruzione che emana dalla forma vibrazionale energetica verbale, non stupisce il terreno fertile privilegiato della filosofia Zen (e dello Yoga che ha le sue radici ontolinguistiche nell’altrettanto essenziale lingua sanscrita Devanagri). 

E poi c’è il wabi-sabi, qualcosa che ha intimamente a che fare con tutto questo ma con ancora più drammatica intensità di non definizione. Così simile alla pace più profonda dell’Anima.


“Se si chiede ai giapponesi di definire il wabi-sabi, la maggior parte di loro scuote la testa, esita e pronuncia qualche parola di scusa per la difficoltà che incontra nel definire il concetto. Quasi tutti i giapponesi affermano di capire la sensazione del wabi-sabi ma pochissimi riescono a spiegarla con chiarezza”

 

… Trovo questo impatto di una disarmante bellezza! 



La poesia dell’indefinibile aleggia in tutte le definizioni provvisorie che possono essere date al wabi-sabi. Come una provocazione senza interlocutore.

Wabi-sabi è la bellezza delle cose imperfette, temporanee e incompiute. 

È la bellezza delle cose umili e modeste.

È la bellezza delle cose insolite.

È la bellezza della crepa di quella famosa citazione di Leonard Cohen:

"c’è una crepa in ogni cosa, ed è da lì che entra la luce"

È la bellezza delle crepe che si formano negli oggetti cotti con la tecnica Raku, talmente belle che sono loro poi a restituire l’armonia finale all’opera terminata.

È la bellezza enigmatica dei soli tre versi degli Haiku, i componimenti brevi della poetica giapponese.



È l’intuizione costante che dal brutto si può ottenere il bello, che i dettagli trascurati o poco appariscenti possiedono la loro grandezza, che le cose regrediscono verso il nulla o si evolvono da questo, che bisogna accettare l’inevitabile, che tutte le cose sono temporanee, che tutte le immagini amano svanire, che l’ordine cosmico fa il suo corso con graffi, scheggiature, lividi, macchie, incurvature, sbucciature, avvizzimenti, rughe, ragnatele, cataratte, sbavature, nei … Che l’essenziale, spesso, è invisibile agli occhi e che ridurre all’essenziale non vuole dire eliminare la poesia.

Perché wabi-sabi è poesia, poesia calda delle cose. Come la vita, se vista da vicino
.



“Il wabi-sabi non ha niente a che vedere con la magnificenza dei fiori, la maestosità degli alberi o l’arditezza dei paesaggi, ma interessa gli  aspetti  minori  e  nascosti,  temporanei  ed  effimeri:  particolari  così  sfumati  ed  evanescenti  che  risultano  invisibili  a  uno  spettatore qualunque. Come la medicina omeopatica, il wabi-sabi dispensa la propria essenza in piccole dosi: via via che il dosaggio diminuisce l’effetto si fa più potente e profondo. Più le cose si avvicinano all’inesistenza, più si fanno delicate ed evocative. Di conseguenza, per sperimentare l’essenza del wabi-sabi bisogna rallentare il ritmo, essere pazienti e guardare molto da vicino”.



A volte la vita crea momenti di crisi che formano crepe nell’anima, sono attriti paragonabili allo shock termico che subisce l’oggetto nella tecnica Raku quando viene tolto dalla temperatura di cottura iniziale che raggiunge i 920 gradi! Al passaggio successivo (amalgamando l’oggetto con la segatura nel fuoco vivo), quelle crepe assorbendo il fumo si colorano di nero, venature sublimi che sono la firma inconfondibile di qualsiasi creazione artistica realizzata con tale tecnica di costruzione e di cottura giapponese.


Quelle stesse crepe nell’anima sono i tratti ineccepibili del futuro capolavoro dell’esistenza.

Non per niente Raku vuol dire “gioia di vivere”… 

E non per niente Yoga vuol dire Unità perché:

all’estremo, l’altezza raggiunge la profondità” (Zeami Motokiyo)

 


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