30 maggio 2013

CRISTO IN TECHNO MUSIC: COSA CI SIAMO PERSI PER STRADA?


Da quando ho visto il primo spettacolo dedicato a Frida Kahlo, non l’ho più mollato. Gianni Licata è un regista che disorienta, scompone la realtà per ricostruirla sulla scena secondo nuove angolazioni, dando spago alle corrispondenze più estrose, quelle meno banali e, dunque, anche più difficili da digerire. La vita fatta a pezzi senza indulgenze per chi la osserva, ma fruibile come un godimento estemporaneo che lascia sbigottiti e appagati al tempo stesso, insomma una forza della natura, con tutte le sue impeccabili contrarietà.

Mai come nel suo ultimo spettacolo - di cui ho avuto l’onore di assistere all’esordio ieri sera presso il teatro “Lo Spazio” a Roma (e di cui, dico subito, ci sono due repliche stasera e domani) – tale forza dirompente e sovversiva si appropria della scena, e delle identità di chi la osserva. Se poi il protagonista ispiratore del tutto è la figura di Cristo, lascio immaginare il resto. “33” è il titolo dell’opera, una piece teatrale concepita – ed è questa una delle prime cifre stilistiche di Gianni – come tableaux vivants, in questo caso idealmente collegate alle stazioni di una via crucis postmoderna da cui far riemergere il senso ultimo, e mai compreso fino in fondo, del messaggio cristiano. Troppo semplice forse, per poter essere accolto con altrettanta semplicità. Perché ai dogmi le cose semplici fanno paura, devono autogiustificarsi con concettualizzazioni ed epistemologie per poi indurre più seguaci possibili a un atto di fede che deriva dalla non comprensione. Come dire, “tutto questo è molto complesso, ma tu credici. E’ questa la fede, credere senza esperire, credere senza avere prove”. Invece no, non è questa la fede. Questa è accettazione passiva. Perchè Dio, qualsiasi divinità, non è irraggiungibile come sembra, non è in un paradiso isolato e lontano anni luce da noi. E non è nemmeno un modo di dire, se solo lo si sapesse praticare.

Ama il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro da capire, né da argomentare. C’è solo da fare. Amare tutto e tutti, indistintamente. Senza riserve alcune, senza distinzioni di sesso, razza, identità di genere, senza paura dell’Altro da sé. Luoghi comuni? Frasi fatte? Eppure qualcosa, di questo fraseggio ovvio e scontato, è stato perso per strada. Peggio ancora, non compreso. E proprio qui ci conduce il lavoro di Gianni Licata, frutto di una meditazione durata ben quattro anni.

Il Cristo portato in scena è l’Incompreso per eccellenza. E’ interpretato da una donna per lo più immobile, sagoma angelicata, presenza/assenza su un palco congestionato, invece, dai movimenti convulsi sincopati stereotipati, appositamente ipnotici, dei discepoli. Uomini e donne (bravissimi attori e ballerini) che si dimenano senza posa, sul palco ma anche ai piedi degli spettatori, un po’ vittime un po’ carnefici, rappresentando, con gettiti di visionarietà perforanti come è d’uso nel linguaggio scenico di Licata, una Umanità contrita nel suo stesso dolore disumano. Disumano perché divina è la gioia, e ce la siamo persa per strada anch’essa, dimentichi del precetto più semplice del mondo: ama il prossimo tuo come te stesso. Cristo in scena fa poche prediche, e le poche che fa sono un sibilo arrogante che sembra andare controcorrente con tutto quello che si vede e sente sul palcoscenico, merito degli efficienti testi di Fabio Filosofi del Ferro, cuciti addosso ai movimenti degli attori proprio come una sorta di contrappasso dantesco. A cui dà man forte una colonna sonora a base di techno music che fa venire i brividi (per darvi un’idea provate ad ascoltare fino alla fine questa traccia: Sacred Circle di Pete Lazonby). 
Cristo in scena sembra quasi subire una condanna ben peggiore della sua croce, perché vede un mondo intero finito sotto una croce, a dispetto di qualsiasi redenzione: il mondo dei traditori, il mondo fatto di conflitti, di gerarchie di minoranze, di spettacolarizzazione delle emozioni (esilarante a riguardo il tableau vivant che scimmiotta con drammatica ilarità i vari talk e reality show di turno), di mercimonio della spiritualità. 



Ma veniamo alle buone notizie (visto che l’unica regola del mio blog è questa: “solo buone notizie”). Dietro a tutto questo sovvertimento funereo dei valori che piomba addosso allo spettatore inducendolo certo a porsi domande, ma di sicuro anche a divertirsi, rimane placido come una ghirlanda di fiori più che di spine, lo Sguardo Compassionevole che tutto ingloba e che tutto ama. E ci si sente accolti, come in un grembo materno di dimensioni spropositate in cui c’è spazio per chiunque e per qualsiasi cosa. “Tutto è natura se esiste nel creato”. Eccolo, il mantra liberatorio, l’ambrosia che riscatta da tanta indigesta incomunicabilità.  L’ultima parola, dunque, alla Natura. Un ritorno a casa, all’origine, nel luogo zero dove non esistono differenze, dove l’etica non è un atto politico ma un moto di spirito. Dove non importa se sei uomo, donna, cristiano, musulmano, di colore, eterosessuale, gay, transessuale, diversamente abile, madre, padre, ragazza madre, figlia adottiva, figliol prodigo, traditore o incredulo, Giuda o San Tommaso. Tutto è natura se esiste nel creato e il segreto è solo uno: amare tutto, indistintamente. A cominciare da te stesso.

Informazioni per assistere allo spettacolo (30 e 31 maggio)
Teatro ''Lo Spazio'' via Locri 42/44: è una traversa di via Sannio, zona San Giovanni.
Ore 21. Biglietteria: tel. 06-77076486
Biglietti: 10 euro
Prenotazioni via sms: 333 5749714


"Maestro io amo tutti", disse una discepola.
"Dovresti amare Dio solo!", rispose Paramansaji.
La discepola incontrò il Guru alcune settimane dopo.
Questi le chiese: "Ami tu gli altri?"
"Io conservo il mio amore per Dio solo", rispose la devota.
"Dovresti amare tutti di questo amore".
Confusa la discepola chiese: "Signore, che cosa intendete dire?
Prima dite che amare tutti è sbagliato, poi dite che è sbagliato
escludere alcuno dal nostro amore."
"Tu sei attratta dalla personalità della gente, che porta a
contrarre attaccamenti limitanti", spiegò il Maestro. "Quando
amerai veramente Iddio, Lo vedrai in ogni volto umano, e saprai
che cosa significa amare tutti. Non sono le forme e gli ego che
dobbiamo adorare, ma il Signore dimorante in ogni essere umano.
Egli solo dota le sue creature di vita, fascino e individualità
".

(dal pensiero di Paramansha Yogananda)


27 maggio 2013

L'IMPORTANZA DI ... RIEMPIRE LE CANTINE


Se me lo avessero detto anni fa, che avrei dovuto lasciare Roma e per giunta per trasferirmi in una città del Nord Italia, non solo non ci avrei creduto ma avrei ritenuto la cosa semplicemente impossibile. Da dirsi, da farsi, anche solo da immaginarsi. Per tanti motivi personali, ovviamente, ma anche per una sorta di assuefazione al radicamento autoalimentata negli anni dalle molteplici belle esperienze vissute nella città che mi ha dato i natali e da cui sono sempre tornata dopo i miei pur tanti viaggi. E poi il tormentone luciferino del “Roma è Roma”, quell’unicum antropomorfico da cui è difficile tirarsi fuori, l’imprinting di appartenenza che ti si stampa addosso, anzi dentro, in profondità difficili da raggiungere con la sola ragionevolezza. Ma fortunatamente, la vita ha più fantasia di noi (è uno dei miei motti preferiti) e a dispetto delle nostre paure, dei nostri preconcetti e delle nostre abitudini radicate come schematismi mentali, ci pone davanti esattamente le situazioni che più “ci servono” in quel preciso momento, né prima né dopo. Ovviamente nell’immediato non se ne comprendono le ragioni appieno ma, rimanendo il più possibile ricettivi ai segnali che continuamente l’Universo invia in varie forme (le sincronicità sono le sue preferite!), si può percepire quel sottile strato di catartico rigore che sostiene ogni movimento del nostro meraviglioso divenire. Che è un fluire con la vita. E fluire con la vita vuol dire allinearsi con i cambiamenti che sono geniali strumenti di perfezionamento dell’evoluzione personale, se non si pone loro eccessiva resistenza, se si rimane aperti all’imprevedibile senza sgomentarsi, e (cosa ben più ardua) mettendo in cantina qualsiasi atteggiamento giudicante. 


 

Dunque, il mio primo passo è stato proprio questo: riempire la cantina. E, oltre a scoprire quanta robaccia inutile possa entrare lì dentro, l’effetto più sconvolgente è stato – come è prevedibile – il suo contrario: quanta preziosa energia vitale può essere immagazzinata durante quest’opera di smistamento. Perché là dove si crea spazio facendo pulizie di ciò che è superfluo, la leggerezza del vuoto prende forma. E l’essenziale rimane. Dagli oggetti alle amicizie, tutto si riqualifica o perde valore. Tutto si rimodella in base ai nuovi potenziali che sono stati messi in atto mediante la rimozione del vecchio. E’ la legge naturale della “chiusura dei cicli”, così corroborante da perforare qualsiasi ultima difesa possibile edificata da quella gabbia urticante che è la mente egoica.

Quando ho intuito che “dovevo andare” perché era giunto il momento per me di fare questa esperienza, ho sentito semplicemente danzare qualcosa sottopelle, in particolare una sorta di borbottio dall’ombelico in su: era il plesso solare che mi parlava, il nostro secondo cervello, quello delle sensazioni di pancia che troppo spesso ignoriamo … E mi sono istantaneamente tranquillizzata, perché l’intelligenza superiore della mente intuitiva aveva già scelto. Certo, dopo ho dovuto fare i conti con il bombardamento razionale a cui non è parso vero di sfogarsi, neanche a dirlo: oddio il trasloco, oddio il freddo, oddio la neve, oddio i torinesi, oddio mamma e papà da soli … e via dicendo tutto il miglior repertorio di  sabotaggi di cui l’ego messo in crisi dispone. E tutto sommato è anche molto divertente stare ad osservare questa lotta impari che si svolge nel terreno fertile della consapevolezza. E’ come fare andare in palestra ogni giorno la coscienza, ed è un buon allenamento. 

A un mese e un giorno dal mio viaggio di sola andata Roma-Torino, l’aria che tira non ha niente di viziato. C’è solo un grande spiraglio a cui mi piace attingere luce ogni volta che mi va, e l’eco che mi rimanda il grande spazio che ho ricavato dalle mie pulizie suona più o meno così “Roma è Roma, ma la bellezza non la puoi chiudere in cantina. Ovunque la vorrai vedere, lì la troverai”.

L’essenziale è invisibile agli occhi” (Antoine De Saint Exupery)

Letture consigliate:
"Nulla succede per caso" di Robert Hopcke

"Sri Aurobindo l'avventura della coscienza" di Satprem
"La potenza del pensiero" di Swami Sivananda

"Che cielo, il cielo di Roma oggi" - Piazza della Minerva : scattata il 28 dicembre 2012

"Il miraggio del tempio (la Grande Madre) lungo il Po": scattata a Capodanno 2013

24 maggio 2013

LA BAMBINA CHE DISEGNAVA I BUCHI NERI

Macrolibrarsi.it presenta il LIBRO: Il Corpo Sottile

C’era una volta una bambina che amava disegnare gli alberi. Fin qui niente di nuovo, niente di eclatante. Tutti i bambini disegnano alberi. Ma questa bimba aveva la fissazione di creare il suo alberello con un bel buco in mezzo al tronco. Il tronco massiccio aveva sempre radici lunghe e profonde, svettava sinuoso fino a esplodere nei rami pieni di foglioline verdi raffigurate approssimativamente come una folta chioma verde pastello e, il più delle volte, senza fiori. Solo foglie verdi e poi in alto, solo cielo. Cielo azzurro. Ma nel bel mezzo del tronco spiccava lui, il buco nero. Tutte le volte che qualche adulto vedeva quei disegni la bambina scorgeva nel volto dell’ammiratore espressioni di perplessità e poi, repentina e puntuale, la solita domanda: “ma perché, piccola stella, quel buco nero lì?”. No, non alla bambina direttamente, la domanda veniva rivolta agli altri adulti presenti, quasi a cercare complicità o, peggio ancora, conforto.

La bambina, ovviamente, assorbiva quei segnali di straniamento di fronte al suo buco nero ma continuava imperterrita a immaginare i suoi alberi così. Non sapeva bene perché, né se ne preoccupava più di tanto, ancora Freud era un perfetto sconosciuto per lei. Nel corso degli anni la bambina – che nel frattempo aveva smesso di disegnare alberi per dedicarsi ad altre attività ahimè ben più cerebrali (tanto si è capito che la bambina in questione è la sottoscritta) – si trovava spesso a rimuginare su quei disegni e anche un po’ a vergognarsene. Li temeva persino. Primo, perché gli alberi bucati non esistono – si diceva - o almeno, lei non li aveva mai visti. Secondo, perché nel frattempo aveva fatto la conoscenza di Freud, Jung e compagnia bella, e non era stato piacevole recepire come una voragine nera possa interrompere, se non inghiottire del tutto, la linfa vitale che scorre nel bel mezzo di un tronco rappresentante la vita. Giusto per riassumere, naturalmente. Insomma, la caccia al trauma infantile era iniziata, senza via di scampo. E però, in fondo al cuore della bambina sognatrice diventata adulta ancora più sognatrice, l’amore incondizionato per quel modo di disegnare l’albero rimaneva,
come un commovente anelito di fiducia senza una direzione ben precisa. Forse verso il lato oscuro delle cose che, tra l’altro, spesso non sono poi così deplorevoli come sembra o come, peggio ancora, ci vogliono far sembrare. Tant’è.

Giorni fa, per una serie di circostanze che rientrano in quelle sincronicità perfette della vita, mi trovo a prendere parte a una bella iniziativa in Umbria, presso il Griffin’s Resort, un  luogo molto speciale dove è in corso d’opera un vero e proprio Sogno. Ne ho scritto qui, se vi interessa approfondire. Ed è proprio in questo luogo ameno che la bambina incontra il suo albero. Stupefatta, con un moto di spontaneità e tutte le cellule del suo corpo in fibrillazione, esclama: “Allora esisti! Allora avevo ragione”, in una sorta di richiamo ancestrale molto divertente perché la bambina, che ora ha 36 anni suonati, è stata praticamente ipnotizzata per tutta la serata da quell’albero che, tra l’altro, non aveva solo uno ma ben due buchi. Due splendidi buchi neri.

Il fantasmagorico elemento che per anni mi ha perseguitata come metafora della (mia) vita, si è materializzato davanti agli occhi rivelandomi una travolgente bellezza: che quel buco in realtà può contenere qualsiasi cosa. Una fenditura d’aria dove si incanalano nuove possibilità, una via di fuga non una gabbia, una calamita che fagocita ma anche restituisce, una finestrella dove il buio rispecchia la luce di chi la guarda, un buco della serratura da dove spiare la vita in insolite traiettorie. Premetto che avevo già visitato lo stesso albergo durante un evento organizzato per giornalisti all’inaugurazione, qualche anno fa, e non avevo visto nulla. L’albero c’è sempre stato ma, allora, io non l’avevo veduto.
Non era tempo per me di fare pace con un trauma infantile che, in fondo, non avevo mai vissuto. Perché non esisteva. Perché dove gli altri ci vedevano turbe psichiche io ci vedevo soltanto un buco. Un semplice, innocente, mirabolante buco nel tronco di un albero.


La creazione è sia luce che ombra, altrimenti non sarebbe possibile alcuna immagine
(Paramhansa Yogananda)





Nelle foto: l’albero fotografato al Griffin’s Resort