C’era una volta una bambina che amava
disegnare gli alberi. Fin qui niente di nuovo, niente di eclatante. Tutti i
bambini disegnano alberi. Ma questa bimba aveva la fissazione di creare il suo
alberello con un bel buco in mezzo al tronco. Il tronco massiccio aveva sempre
radici lunghe e profonde, svettava sinuoso fino a esplodere nei rami pieni
di foglioline verdi raffigurate approssimativamente come una folta chioma verde
pastello e, il più delle volte, senza fiori. Solo foglie verdi e poi in alto,
solo cielo. Cielo azzurro. Ma nel bel mezzo del tronco spiccava lui, il buco
nero. Tutte le volte che qualche adulto vedeva quei disegni la bambina scorgeva
nel volto dell’ammiratore espressioni di perplessità e poi, repentina e
puntuale, la solita domanda: “ma perché, piccola stella, quel buco nero lì?”. No,
non alla bambina direttamente, la domanda veniva rivolta agli altri adulti
presenti, quasi a cercare complicità o, peggio ancora, conforto.
La bambina, ovviamente, assorbiva quei segnali di straniamento di fronte al suo buco nero ma continuava imperterrita a immaginare i suoi alberi così. Non sapeva bene perché, né se ne preoccupava più di tanto, ancora Freud era un perfetto sconosciuto per lei. Nel corso degli anni la bambina – che nel frattempo aveva smesso di disegnare alberi per dedicarsi ad altre attività ahimè ben più cerebrali (tanto si è capito che la bambina in questione è la sottoscritta) – si trovava spesso a rimuginare su quei disegni e anche un po’ a vergognarsene. Li temeva persino. Primo, perché gli alberi bucati non esistono – si diceva - o almeno, lei non li aveva mai visti. Secondo, perché nel frattempo aveva fatto la conoscenza di Freud, Jung e compagnia bella, e non era stato piacevole recepire come una voragine nera possa interrompere, se non inghiottire del tutto, la linfa vitale che scorre nel bel mezzo di un tronco rappresentante la vita. Giusto per riassumere, naturalmente. Insomma, la caccia al trauma infantile era iniziata, senza via di scampo. E però, in fondo al cuore della bambina sognatrice diventata adulta ancora più sognatrice, l’amore incondizionato per quel modo di disegnare l’albero rimaneva, come un commovente anelito di fiducia senza una direzione ben precisa. Forse verso il lato oscuro delle cose che, tra l’altro, spesso non sono poi così deplorevoli come sembra o come, peggio ancora, ci vogliono far sembrare. Tant’è.
La bambina, ovviamente, assorbiva quei segnali di straniamento di fronte al suo buco nero ma continuava imperterrita a immaginare i suoi alberi così. Non sapeva bene perché, né se ne preoccupava più di tanto, ancora Freud era un perfetto sconosciuto per lei. Nel corso degli anni la bambina – che nel frattempo aveva smesso di disegnare alberi per dedicarsi ad altre attività ahimè ben più cerebrali (tanto si è capito che la bambina in questione è la sottoscritta) – si trovava spesso a rimuginare su quei disegni e anche un po’ a vergognarsene. Li temeva persino. Primo, perché gli alberi bucati non esistono – si diceva - o almeno, lei non li aveva mai visti. Secondo, perché nel frattempo aveva fatto la conoscenza di Freud, Jung e compagnia bella, e non era stato piacevole recepire come una voragine nera possa interrompere, se non inghiottire del tutto, la linfa vitale che scorre nel bel mezzo di un tronco rappresentante la vita. Giusto per riassumere, naturalmente. Insomma, la caccia al trauma infantile era iniziata, senza via di scampo. E però, in fondo al cuore della bambina sognatrice diventata adulta ancora più sognatrice, l’amore incondizionato per quel modo di disegnare l’albero rimaneva, come un commovente anelito di fiducia senza una direzione ben precisa. Forse verso il lato oscuro delle cose che, tra l’altro, spesso non sono poi così deplorevoli come sembra o come, peggio ancora, ci vogliono far sembrare. Tant’è.
Giorni fa, per una serie di circostanze che rientrano in quelle sincronicità perfette della vita, mi trovo a prendere parte a una bella iniziativa in Umbria, presso il Griffin’s Resort, un luogo molto speciale dove è in corso d’opera un vero e proprio Sogno. Ne ho scritto qui, se vi interessa approfondire. Ed è proprio in questo luogo ameno che la bambina incontra il suo albero. Stupefatta, con un moto di spontaneità e tutte le cellule del suo corpo in fibrillazione, esclama: “Allora esisti! Allora avevo ragione”, in una sorta di richiamo ancestrale molto divertente perché la bambina, che ora ha 36 anni suonati, è stata praticamente ipnotizzata per tutta la serata da quell’albero che, tra l’altro, non aveva solo uno ma ben due buchi. Due splendidi buchi neri.
Il fantasmagorico elemento che per anni mi ha perseguitata come metafora della (mia) vita, si è materializzato davanti agli occhi rivelandomi una travolgente bellezza: che quel buco in realtà può contenere qualsiasi cosa. Una fenditura d’aria dove si incanalano nuove possibilità, una via di fuga non una gabbia, una calamita che fagocita ma anche restituisce, una finestrella dove il buio rispecchia la luce di chi la guarda, un buco della serratura da dove spiare la vita in insolite traiettorie. Premetto che avevo già visitato lo stesso albergo durante un evento organizzato per giornalisti all’inaugurazione, qualche anno fa, e non avevo visto nulla. L’albero c’è sempre stato ma, allora, io non l’avevo veduto. Non era tempo per me di fare pace con un trauma infantile che, in fondo, non avevo mai vissuto. Perché non esisteva. Perché dove gli altri ci vedevano turbe psichiche io ci vedevo soltanto un buco. Un semplice, innocente, mirabolante buco nel tronco di un albero.
“La creazione è sia luce che ombra,
altrimenti non sarebbe possibile alcuna immagine”
(Paramhansa Yogananda)
(Paramhansa Yogananda)
Nelle foto: l’albero fotografato al Griffin’s Resort
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