A tanto, ormai, albero del fico, è un segno per me
come tu quasi salti del tutto la fioritura
e nel frutto maturato a stagione
senza lode insinui il tuo puro segreto.
Come il tubo della fontana, la curva dei tuoi rami
spinge in alto e in basso la linfa: e dal sonno, quasi senza
nemmeno distrarsi, balza nella felicità del suo più dolce compirsi.
Vedi, è come il dio nel cigno.
… Ma noi, ahimè, indugiamo
nella gloria della fioritura, e nella tardata intimità
del nostro frutto alla fine penetriamo traditi.
A pochi urge tanto la spinta all’agire
da essere pronti ad ardere verso la pienezza del cuore
se la seduzione a fiorire, come dolce soffio notturno, alita sulla giovane bocca e sulle palpebre:
gli eroi, forse, o quelli subito destinati a trapassare, che ad essi il giardiniere La Morte diversamente curva le vene.
La numero VI delle Elegie Duinesi si apre con un richiamo all'albero del fico, pianta simbolica fin dalla notte dei tempi, e non solo per il poeta Rilke!
Non è un dettaglio, forse, che l’albero della Bodhi sotto il quale si ritiene fosse avvenuto il risveglio del Buddha, era un antico fico sacro (Ficus religiosa).
Quello che mi ha ispirato la rilettura dei bellissimi versi rilkiani è stato un Insight che ora provo a esprimere in queste righe a seguire.
E’ tempo di fruttificare senza crogiolarsi nelle seduzioni del fiorire, senza crogiolarsi nelle presunzioni del “progresso” spirituale andando dritti nella direzione che conta, che è il “puro segreto” del fico e che Rilke chiama “la pienezza del cuore” e che a me ha riportato all'essenza dell’Advaita Vedanta, l’intimità con l’essere, anzi l’Essere.
A voler essere ancora più tranchant, si potrebbe “associare” la fioritura con i vari abbellimenti delle “pratiche spirituali” che – laddove non siano davvero sostenute dall’autentica volontà di abbandonare l’ego (la suprema delle pratiche e l’unica che davvero conti) possono glorificare l’ego spirituale concedendogli tregua, estasi, calma, conforto, beatitudine … Ma pur sempre di ego si tratta. L’impollinatura di fugaci primavere, seduzioni che possono essere fuorvianti, l’attesa di un frutto a venire e l’aspettativa del suo compiersi.
Il fico è una bella metafora di colui che non disperde le sue energie nell'effimero e va dritto al sodo: ai frutti, al risultato. Come l’eroe, evocato da Rilke nei versi successivi, colui il quale è sempre pronto ad ardere con una urgenza di azione restituitagli dall'essere sostanzialmente pronto a morire – “destinato a trapassare” canta Rilke.
In fondo, la chiamata dell’eroe è la stessa per ogni comune mortale, a volerla ricordare.
E’ la chiamata alla necessità di morire all'ego, affinché si compia il destino della “vera vita”, quella al di là delle apparenze cangianti, affinché accada la maturazione del “puro segreto”, la vita eterna, al di là del tempo e dello spazio, ma qui e ora proprio qui e ora su questa terra, con questo veicolo-corpo, ciascuno con le proprie situazioni-di-vita.
Il vero frutto della passione non è l’evangelica mela ma l’elegiaco fico, il frutto che salta la fioritura per compiersi direttamente nel momento succulento dell’adesso. Ma non è una passione né morale né immorale, è piuttosto un accadimento imbevuto di necessità, a-morale, a-storica, impersonale.
Quale passione più grande, se non quell'ardire eroico verso la pienezza del cuore?
Possiamo lasciarci ispirare da questa profondità simbolica del fico, non attaccandoci alle fioriture sui prati dell’attesa di chi non sente la “chiamata” abbastanza forte da farne l’unico vero scopo della vita.
Ecco, se proprio c’è da seminare un intento per il nuovo anno – ma vale per ogni giorno della vita – che sia di … non disperdersi in inutili attività che allontanano dall'essenza, spesso con l’alibi tanto ben sostenuto in ambienti spirituali che “tutto fa esperienza, tutto serve, tutto capita quando deve accadere etc.” Vero, in parte o comunque è di facile fraintendimento.
Non c’è niente che non possa essere ottenuto senza una forza di volontà, un impegno, una qualche disciplina. Se si vuole imparare a suonare uno strumento, ci si applica e anche nel caso si avesse la genialità di un talento precoce e intuitivo, ci si applica comunque a suonarlo, per il gusto di suonarlo. Il piacere … La passione, appunto.
Qualsiasi conseguimento non fruttifica nella stasi e nell'inerzia apatica e fatalistica di chi si affida alla “manna che cade dal cielo” senza ricettività, apertura, dialogo costante con l’interiorità che si svela, osservazione acuta e amorevole, disponibilità a lasciar andare abitudini dannose, gabbie mentali etc. …
Come dire, la manna certo che cade ma se non trova terreno fertile …
Insomma, inutile girarci intorno: il terreno va innaffiato, predisposto, curato.
I tempi sono più che maturi per fare davvero un tale balzo di coscienza, dalla fioritura al frutto.
Si può utilizzare ciò che maggiormente è utile in tale direzione, nel senso di essere funzionale a tale riassorbimento dell’effimero nelle “profondità del cuore” – riprendendo le parole di Rilke – : meditazioni, camminate, viaggi, musica, poesia…
Ciò che ci fa sentire parte di un qualcosa di veramente più grande e ci toglie dal senso di importanza personale, e possiamo percepirlo direttamente nel corpo, non come semplice seduzione intellettuale. Per poi non sentire più nemmeno il corpo, essere frutto e basta.
A me succede spesso leggendo poesie, e scrivendo. Ma anche gustando il primo sorso di caffè la mattina. E non solo a gambe incrociate davanti al mio altarino di casa…
Tutta la vita è il tempio nel quale possiamo godere del nostro tempo intensificando l’eterno, a discapito di ciò che luccica e che scambiamo per oro. E allora certo si può continuare a godere della piacevolezza di mille primavere fiorite ma si è imparato a vedere …
IMPARARE A VEDERE
Rilke a un certo punto della sua vita riassume la sua “missione” (o meglio, la missione del poetare) in questo: imparare a vedere. L’aiuto gli venne dato dalle suggestioni artistiche delle opere di Van Gogh e soprattutto Cézanne, il grande maestro, come dirà Handke, di vita e di sguardo.
Avere uno sguardo tale per cui il visibile possa ritrarsi nell’invisibile, sottraendo la caducità delle cose alla loro inevitabile nostalgia. Prendersi cura delle cose così come sono, accoglierne fragilità, caducità, metamorfosi, con sguardo compassionevole, per Rilke non ancora impersonale ma di sicuro imbevuto di una grazia innegabilmente “sovrannaturale”…
Mi viene da sorridere, perché ancora una volta mi balza alla mente il saluto dei Nativi di Avatar (e va bene, lo sapete che per questo film ho una grande ammirazione)… Il saluto – che in realtà era una dichiarazione d’amore – si riassume in queste tre parole, “Oel ngati kameie” tradotte così: “Io ti vedo”. Ne ho scritto varie volte, per approfondire ti rimando sul Blog: Cronache da Pandora: Io ti vedo
Lascio che a concludere sia proprio Rilke, con altri versi sempre tratti dalle Elegie Duinesi di cui riporto fedelmente anche il corsivo.
la felicità più visibile
ci si rivela soltanto se intimamente la trasformiamo …
[…]
E noi, che pensiamo alla felicità
come ascesi, avremmo l’emozione,
che quasi sgomenta,
di una cosa felice cadendo
Cosa fa il frutto quando è maturo?
Cade dall'albero …
A Rilke è dedicato il mio ultimo libro di poesie, Il mestiere del dare.
€ 8,00
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