In questo angolo di India tibetana, è la forza di natura tantrica che disegna paesaggi e stimola riflessioni, specie dopo aver incontrato almeno una di queste donne speciali del Ladakh: le oracolesse tantriche, sciamane guaritrici, custodi di segreti in parte svelati in parte velati da un intraducibile linguaggio arcano. Donne aggrinzite o senza età, che si presentano con un doppio nome – quello comune e quello iniziatico – donne mortali e immortali al tempo stesso, donne poco donne con la divinità nell’anima e una vita segnata per sempre.
Sonam Zangmo ha 80 anni, nome iniziatico Ayu Iamo. Il suo potere si tramanda da più di quaranta generazioni. Sembra una vecchietta dolce e rasserenante prima che la terribile Maha Kali, la Grande Madre “guerriera dei mondi”, si impossessi di lei. Kali è la divinità più potente del tantrismo e la nostra oracolessa ha la “fortuna” di avere proprio Lei come spirito guida, lo spirito che entra nel suo corpo durante la trance. E’ allora che tutto vacilla, le membra fremono, il fumo invade la stanza, la tosse martella la voce rotta delle grida a suon di vajra e tamburelli, mentre gli astanti ammassati davanti a Maha Kali in persona si prostrano per ricevere consigli e benedizioni. Dura
pochi minuti la cerimonia della vestizione e dell’entrata in trance,
tra offerte e incensi da bruciare, formule magiche e una volontà
superiore che, in sostanza, utilizza il forte potere creativo
dell’immaginazione. Altrettanti minuti densi di ipereccitazione
sensoriale, come a seguire con il corpo un fraseggio divino, anticipano
l’uscita dalla trance e la svestizione, pochi e puntuali gesti per
ritornare a guardare il mondo con gli occhi di una ottantenne contadina
del Ladakh.
Tsewang Dolma, 52 anni, sarebbe morta o finita male se non avesse seguito il suo destino da oracolessa. Sarebbe finita in un manicomio a scontare la pena delle sue visioni che avrebbero trovato spazio in qualche cartella clinica col nome di una certificata psicopatologia da curare. Se non fosse nata in Ladakh. Da queste parti – dove sembra non esserci spazio per la malattia mentale e se si muore si muore di povertà, nuda e cruda – la mente è il rifugio dove custodire la sacralità della vita, persino nella sua follia. Così Tsewang Dolma, incanalata nel percorso sciamanico dal Lama Stakna Rimpoche che ne ha sigillato l’ufficialità, pratica le sue guarigioni come una sorta di medico del villaggio a Leh, capitale del Ladakh.
Il rituale della vestizione si rinnova, anche lei indossa il tipico “cappello” simbolo della trasmutazione – da donna a dea – si deterge di essenze speciali e, con gli occhi fissi sull’immagine-santino appesa davanti al suo tabernacolo personale, invoca la litania che la introduce nella trance. Intanto si è formato un semicerchio attorno alla sciamana. Tsewang Dolma segue con lo sguardo, apparentemente assente, movimenti e gesti degli astanti e, chissà per quali indizi di volontà superiore, chiama solo alcune persone a prostrarsi davanti a lei. Dapprima i polsi, una tenue stretta per individuare battiti ed eventuali anomalie, poi a ciascuno la sua porzione di corpo da “succhiare”. Sì perché Tsewang Dolma letteralmente aspira con una cannuccia il male dalla parte del corpo che necessita di una purificazione, per poi sputare un liquido giallastro in una ciotola. L’oracolessa in questione, infatti, è anche una guaritrice ed ha molto seguito nel piccolo villaggio di Leh.
Assisto attonita al rituale della cannuccia che preleva l’infetto dalla guancia di una donna anziana gesticolante che accusava problemi ai denti, troppo assorta per rendermi conto che ne facevo parte anch’io, di quel serio gioco della divinità matriarcale. Vengo chiamata al cospetto della sciamana prima ancora che potessi giurare a me stessa di non farmi suggestionare, e in un batter d’occhio, le sue mani sono sul mio ventre e, in corrispondenza, dietro la schiena, mentre parole in tibetano, ripetute tipo mantra ossessivo, pronunciano la sentenza definitiva: “togli l’ansia dallo sforzo”. E dio solo sa quanto viscerale sia la mia personale inquietudine, localizzata esattamente nei punti che Tsewang Dolma ha voluto purificare. Avrebbe potuto dire qualsiasi cosa, ma niente avrebbe favorito la mia riflessione mista ad autentico stupore, come quella breve formula di parole. Ma questa è un’altra storia.
Il rituale della vestizione si rinnova, anche lei indossa il tipico “cappello” simbolo della trasmutazione – da donna a dea – si deterge di essenze speciali e, con gli occhi fissi sull’immagine-santino appesa davanti al suo tabernacolo personale, invoca la litania che la introduce nella trance. Intanto si è formato un semicerchio attorno alla sciamana. Tsewang Dolma segue con lo sguardo, apparentemente assente, movimenti e gesti degli astanti e, chissà per quali indizi di volontà superiore, chiama solo alcune persone a prostrarsi davanti a lei. Dapprima i polsi, una tenue stretta per individuare battiti ed eventuali anomalie, poi a ciascuno la sua porzione di corpo da “succhiare”. Sì perché Tsewang Dolma letteralmente aspira con una cannuccia il male dalla parte del corpo che necessita di una purificazione, per poi sputare un liquido giallastro in una ciotola. L’oracolessa in questione, infatti, è anche una guaritrice ed ha molto seguito nel piccolo villaggio di Leh.
Assisto attonita al rituale della cannuccia che preleva l’infetto dalla guancia di una donna anziana gesticolante che accusava problemi ai denti, troppo assorta per rendermi conto che ne facevo parte anch’io, di quel serio gioco della divinità matriarcale. Vengo chiamata al cospetto della sciamana prima ancora che potessi giurare a me stessa di non farmi suggestionare, e in un batter d’occhio, le sue mani sono sul mio ventre e, in corrispondenza, dietro la schiena, mentre parole in tibetano, ripetute tipo mantra ossessivo, pronunciano la sentenza definitiva: “togli l’ansia dallo sforzo”. E dio solo sa quanto viscerale sia la mia personale inquietudine, localizzata esattamente nei punti che Tsewang Dolma ha voluto purificare. Avrebbe potuto dire qualsiasi cosa, ma niente avrebbe favorito la mia riflessione mista ad autentico stupore, come quella breve formula di parole. Ma questa è un’altra storia.
Finito il giro di corpi (e anime) da guarire, la sciamana si ritira nel suo angolo di santità per praticare il ritorno all’ordinario: svestizione, benedizioni varie, scampanellii e litanie di sottofondo. E dopo qualche minuto, eccola tornata donna, sorridente nel suo habitat casalingo, fa quasi tenerezza. Si forma nuovamente un circolo attorno a lei, ma questa volta sono solo donne comuni, gente del luogo, corpi raggrinziti e senza età che chiacchierano in confidenze per noi inaccessibili, come vecchie amiche che passano il tempo. Un salotto davvero insolito, quella catapecchia intrisa di polvere e puzzo di incensi. Eppure nei loro sguardi non c’è traccia di disarmonia e in un colpo d’occhio posso cogliere anch’io, fuggiasca di passaggio senza arte né parte, un lampo di beatitudine che non ha, ne avrà mai, un nome. Solo il riflesso, un po’ sbiadito ormai, di un cerchio di donne malferme e scomposte. Le più belle che io abbia mai visto fin’ora.
Articolo pubblicato su La Stampa - Copyright 2011 © TURISMO.it / Nexta 2011
Le foto inserite in questo post hanno fatto parte di una mostra fotografica dal titolo "India: Istantanee in versi" (2008).
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