Da Artemisia Gentileschi a Raffaello passando per la struggente statua di Maderno. La storia di Santa Cecilia con gli occhi dell'arte.
Statua di Stefano Maderno: statua in marmo datata 1610, conservata presso la Basilica di Santa Cecilia in Trastevere.
Una statua-capolavoro in marmo che rappresenta il momento della ricognizione del corpo della martire, ancora nella posa seguente l'atroce tortura. Posa per certi versi innaturale ma che sembrerebbe riportare abbastanza fedelmente l'atteggiamento in cui venne ritrovata e al quale si è ispirato lo scultore semisconosciuto Stefano Maderno seguendo la descrizione rilasciata da Antonio Bosio (1575-1629) archeologo e studioso della storia antica della Chiesa che partecipò alla famosa ricognizione del corpo di Santa Cecilia avvenuta il 20 ottobre del 1599 a Roma. Viene ricordato come uno degli eventi più noti della storia religiosa moderna.
Cecilia venne trovata «adagiata sul lato destro, le ginocchia appena ripiegate», con «una stoffa leggera di seta verde, rigata di rosso scuro, che avvolgeva interamente il suo corpo disegnandone esattamente le linee». Le sue membra si mostravano «perfettamente integre», la sua carne intatta, screziata solamente da una lieve rigatura di sangue rappreso, che traspariva da sotto il velo. Quello che colpisce maggiormente è l'emanazione di: "un sentimento di «totale abbandono», accentuato dall’assenza del volto e dalla presenza di un panneggio che – sostituto di un ben più macabro flusso – ricopre fin sopra il capo il corpo esile della martire." (cit. Marco Dotti "Sotto il velo della Santità"). Ne scrivo anche qui: 22 Novembre Santa Cecilia: il nome che abito.
ARTEMISIA GENTILESCHI
Santa Cecilia di Artemisia Gentileschi |
Santa Cecilia di Artemisia Gentileschi: dipinto a olio su tela (108x78,5 cm) realizzato nel 1620 circa dalla pittrice italiana, conservato nella Galleria Spada di Roma.
La Santa Cecilia che suona il liuto è uno dei più ragguardevoli nuclei collezionistici dei Gentileschi conservati in un museo pubblico, insieme alla Madonna col Bambino. Artemisia sceglie di rappresentare la Santa in piedi mentre suona il liuto, anche se lo strumento che abitualmente la identifica è l’organo portativo. Esso è entrato nella iconografia di Santa Cecilia come “strumento emblema” a causa di una dubbia interpretazione di un passo liturgico.
Louis Goosen nel suo Dizionario dei santi spiega che nell’VIII secolo, nella liturgia celebrata nel giorno della sua festa, il 22 novembre, il testo recitava “cantantibus organis Caecilia virgo soli domino decantabat” (mentre la musica risuonava, la vergine Cecilia cantava al suo unico Dio).
Artemisia riesce a rendere perfettamente il trasporto interiore della protagonista grazie a uno sguardo potentissimo che esalta l’intera essenza mistica e divina della giovane donna ritratta.
Una donna Cecilia, dalla quale per certi versi la stessa Artemisia era ispirata, o meglio, che anche lei, in quanto Artista, incarnava. L'Autoritratto come suonatrice di liuto (1615-18 circa, olio su tela) parla da solo!
Autoritratto come suonatrice di liuto di Artemisia Gentileschi, Curtis Galleries, Minneapolis |
“L’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia la pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità”. Così nel suo saggio del 1916, lo storico dell’arte Roberto Longhi definisce Artemisia Gentileschi, riconoscendole pienamente lo status di artista, a tre secoli di distanza dall’epoca che l’aveva vista protagonista.
RAFFAELLO SANZIO
Estasi di Santa Cecilia di Raffaello |
Estasi di Santa Cecilia fra i Santi Paolo, Giovanni Evangelista, Agostino e Maria Maddalena di Raffaello: olio su tavola trasportata su tela (236×149 cm) anno 1514 circa, Pinacoteca Nazionale di Bologna.
Il famosissimo dipinto, capolavoro della maturità di Raffaello, raffigura il momento dell’estasi di Santa Cecilia, in cui la santa lascia scivolare le canne dell’organo portativo che ha ancora tra le mani, simbolo delle gioie terrene e volge lo sguardo verso il coro degli angeli, emblema dell’amore divino. I santi che le fanno corona non vengono coinvolti nell’esperienza mistica di Cecilia, ma esprimono ugualmente, con il gioco degli sguardi, l’idea dell'amore assoluto in contrapposizione con l'amore terreno. San Paolo medita osservando gli strumenti musicali a terra, i santi Giovanni e Agostino sono concentrati in un intenso dialogo di sguardi, Maria Maddalena si rivolge all’osservatore invitandolo ad assistere al mistero e mostrando il vaso contenente l’olio con cui volle ungere, mossa dall’amore, i piedi di Cristo.
Raffaello assegna alla figura umana il ruolo di elemento centrale della rappresentazione, riunendo il gruppo dei Santi in uno spazio raccolto a semicerchio che allude all’abside di una chiesa e riducendo lo sfondo di paesaggio.
Straordinaria l’originalità della “natura morta” di strumenti musicali in primo piano per la cui esecuzione Raffaello si avvalse del suo allievo e collaboratore Giovanni da Udine. Attorno a Elena, donna colta, devota e dedita ad opere di carità, si era diffusa in città, a partire dal 1506, una profonda venerazione: la vita della donna era accomunata a quella di santa Cecilia per la castità vissuta all'interno del matrimonio e per le sue visioni mistiche.
(Testo tratto dal sito ufficiale della Pinacoteca di Bologna)
BERNARDO CAVALLINO
Estasi di Santa Cecilia di Bernardo Cavallino |
Estasi di Santa Cecilia di Bernardo Cavallino: olio su tela (207,5 x 157 cm) firmato e datato 1645, conservato presso il Museo e Real Bosco di Capodimonte.
Un’opera raffinata, una scena di gioiosa serenità dalla tavolozza brillante e materica, una delle prove più alte della sensibilità dell’inimitabile maestro napoletano.
È una giovane donna splendida, di una bellezza modernissima: mani affusolate, curate, che non hanno conosciuto il lavoro dei campi – è una aristocratica romana – il volto di una ragazza appena uscita dall’adolescenza; piedi sottili che calzano leggeri sandali all’antica. Veste un abito di seta color giallo oro con controtagli alle maniche e sbuffi di una camicia bianca all’attacco della spalla; sull’abito è un mantello di seta blu oltremare, bordato di perle.
I due angeli – l’uno, in piedi dietro di lei, che la incorona con un serto di fiori intrecciati; l’altro, più sullo sfondo, che suona un liuto – condividono un sorriso tanto ineffabile quanto pieno di gioiosa serenità. In controluce, a sinistra di chi guarda, quello che forse è un leggìo è rivestito da un panno di velluto scuro.
Sullo sfondo è un tendaggio di broccato scuro, che crea intorno alle tre figure un alveo di luce capace di scolpire uno strepitoso caleidoscopio di chiaroscuri.
La ragazza, il cui volto è leggermente imperlato da tenui riflessi di biacca sulle labbra e sul mento, ha la bocca lievemente dischiusa e gli occhi rivolti al cielo, ma non esattamente verso il serto di fiori, perché è da una dimensione extrasensoriale che le sta giungendo la musica accompagnata dal giovane liutista alato.
Dopo aver confidato il suo proposito al marito quest’ultimo si converte al Cristianesimo, venendo battezzato nella prima notte di nozze dal Pontefice Urbano I. Ma tornato a casa Valeriano vede Cecilia in preghiera con un giovane: è l’angelo custode della ragazza.
Insospettito, forse irritato, chiede una prova dell’effettiva natura angelica del giovane: questi, allora, fa apparire due corone di fiori e le pone sul capo dei due sposi.
Nel dipinto di Bernardo Cavallino a Capodimonte e nel suo bozzetto Valeriano non c’è, e tutta l’attenzione del pittore è concentrata su Cecilia.
La sua perfezione, la sua moderna bellezza, la carica (certo) anche erotica della santa e degli stessi angeli biondi, dalle membra affusolate e colte in pose elegantissime, farebbero pensare – come si è spesso sostenuto – alla torsione di un tema legato alla santità, che sarebbe stato trasformato in una performance di seduzione non solo sessuale, ma anche edonistica (le stoffe preziose, gli strumenti musicali).
Ma non è così: l’angelo che incorona Cecilia regge delicatamente nella mano sinistra la frasca di palma che indica l’annuncio del martirio; il violino giace inutilizzato a terra accanto a uno spartito, perché la musica divina non è eseguita da strumenti e non è fisicamente udibile, e dunque anche il liuto tra le mani dell’angelo a sinistra è immateriale al pari della presenza che lo suona.
Il piacere che prova Cecilia è della stessa natura di quello che pochi anni più tardi Bernini imprimerà alla postura e all’espressione della Santa Teresa in estasi a Santa Maria della Vittoria (Roma, 1647-1652).
È un piacere che sembra appartenere alla sfera dei sensi, ma che attraverso essi rende possibile accedere alla dimensione della santità e al suo premio: la comunione con il Divino.
(Testo di Riccardo Lattuada, docente di Storia dell’Arte dell’età moderna all’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli e membro del Comitato scientifico del Museo e Real Bosco di Capodimonte, dal sito ufficiale del Museo e Real Bosco di Capodimonte)
ORAZIO RIMINALDI
Martirio di Santa Cecilia di Orazio Riminaldi |
Martirio di Santa Cecilia di Orazio Riminaldi: olio su tela (334 x 216,6 cm) anno 1620-1625, conservato presso il Museo Palazzo Pitti alla Galleria degli Uffizi di Firenze.
In quest'opera, databile tra il 1620 e il 1625, Riminaldi dimostra chiaramente di avere assimilato appieno la lezione di Caravaggio persino nella puntuale citazione di alcune sue opere, come il “Martirio di San Matteo”. La teatralità dell’impaginazione scenica, con la sapiente orchestrazione del cono di luce che investe i tre protagonisti, accentua sia la potenza espressiva del carnefice che afferra le chiome di Santa Cecilia per scoprirne il collo e vibrare il colpo di spada, sia il dinamismo dell'angelo che si precipita verso la martire per omaggiarla con i simboli della santità e del martirio. Su questo impianto di stretta osservanza caravaggesca l'artista innesta spunti d’indirizzo decisamente classicista, tratti da Simon Vouet e Guido Reni, ravvisabili nella raffinata mondanità delle sontuose vesti di broccato e nella tenera sensualità della martire.
(Testo di Anna Bisceglia sul sito ufficiale della Galleria degli Uffizi)
IL LIBRO DEL MAESTRO DOMENICO MORGANTE
Il segreto di Santa Cecilia, libro di Domenico Morgante, Robin Edizioni, 2016
Daniele Morandi, un organista e musicologo di fama mondiale, giunto a Roma per insegnare al Conservatorio di Santa Cecilia, va ad abitare in un’antica casa nel cuore di Trastevere. Totalmente coinvolto dal fascino della città eterna, si rende conto di ricevere chiari segni premonitori che lo indirizzano, in maniera sempre più mirata, verso un mistero rimasto ignoto nelle pagine di storia. Quando nel 1599 fu aperto il sarcofago di Santa Cecilia, all’interno dell’omonima Basilica, avvenne uno straordinario ritrovamento di cui le fonti non parlano: qualcosa di portentoso e terribile era ancora custodito all’interno del sacro sacello.
Tra enigmi cabalistici e artifici barocchi d’ogni sorta, nasce e si sviluppa una grande storia d’amore tra il protagonista e Cecilia Aldovrandi, una giovane antropologa romana di straordinaria bellezza, che in maniera rocambolesca lo aiuterà a trovare la sconvolgente soluzione di quello che si rivelerà ai loro occhi come uno dei più intriganti enigmi della storia moderna.
22 NOVEMBRE SANTA CECILIA IL NOME CHE ABITO
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