Eccentrica, disinibita e trasgressiva, Zelda Fitzgerald è stata la moglie e musa dell'autore de 'Il grande Gatsby'. Si conobbero nel 1918. |
"La vita non è mai stata data in proprietà individuale, ma per uso comune, non è mai nostra ma diventa nostra solo nella misura in cui la condividiamo. Ma cosa resta, alla fine, della nostra vita? Non le cose a cui eravamo più attaccati. Quel che resta è solo ciò che abbiamo amato! E l'amore si nutre di ricordi, immagini, immaginazione. Nel ricordo rendiamo nuovamente possibile il passato, che è diverso dalla memoria. Dobbiamo riuscire a fare progetti con il passato, senza l'ombra del passato non c'è accesso al presente. Ciò che resta è la lingua della poesia. Una lingua che non dice nulla ma chiama. Il vocativo è quella parte della lingua che non dice nulla ma chiama, anzi interrompe il quotidiano, crea una rottura, è una parte della lingua che non cade nel discorso… Chiama ciò che si perde, ciò che si è perduto, e ciò che si perde è di dio". (Giorgio Agamben)
Risuona di inconfondibili armonie heideggeriane la riflessione di Agamben durante il Salone Internazionale del Libro di Torino, quando - nel suo intervento intitolato "La mia ricerca" - evoca la poesia come unica traccia invisibile di ciò che rimane della vita materiale concentrata su ciò che è visibile e che tende sempre ad avere un fine foss'anche quello dell'azione, del fare e del dover fare sempre qualcosa. L'attitudine teleologica dell'“uomo sociale”, che si traduce linguisticamente in sintesi verbali finalizzate a discorsi, espressioni di idee, sentimenti, emozioni…
Eccola subito la pruriginosa ferita, il limite del linguaggio discorsivo e denotativo che perpetua la necessità di doversi per forza riferire a qualcuno o a qualcosa di esterno per attualizzarsi e, soprattutto, per dire ciò che vuole (o pretende di) dire con chiarezza.
La tirannia di soggetto e complemento oggetto. Ma, soprattutto, la testardaggine delle parole con un fine chiarificatore. Ma poi c'è lei, la Poesia, il linguaggio del Vocativo, la lingua polisenso che non dona certezze, la lingua che non dice ma chiama – per dirla con Agamben, la lingua del Dire originario che è più simile a un canto e a una meditazione - per dirla con Heidegger.
Eccola subito la pruriginosa ferita, il limite del linguaggio discorsivo e denotativo che perpetua la necessità di doversi per forza riferire a qualcuno o a qualcosa di esterno per attualizzarsi e, soprattutto, per dire ciò che vuole (o pretende di) dire con chiarezza.
La tirannia di soggetto e complemento oggetto. Ma, soprattutto, la testardaggine delle parole con un fine chiarificatore. Ma poi c'è lei, la Poesia, il linguaggio del Vocativo, la lingua polisenso che non dona certezze, la lingua che non dice ma chiama – per dirla con Agamben, la lingua del Dire originario che è più simile a un canto e a una meditazione - per dirla con Heidegger.
"Il linguaggio nella sua essenza non è né espressione né attività dell'uomo. Il linguaggio parla. Noi ricerchiamo ora il parlare del linguaggio nella poesia. Ciò che si cerca è, pertanto, racchiuso nella poeticità della parola" (Martin Heidegger, "In cammino verso il linguaggio")
Evidente che non ci si sta riferendo alla versificazione poetica, piuttosto alla poesia quale modus vivendi radicalmente diverso, a un cambio di relazione con il linguaggio tout court che crea la realtà che abitiamo. Non tanto a uno scrivere poesie, quanto a uno stare poeticamente al mondo.
Domande come queste mi perseguitano,infiniti cortei d’infedeli,città gremite di stolti,che vi è di nuovo in tutto questo,oh me, oh vita!Risposta:Che tu sei qui,che la vita esiste e l’identità,Che il potente spettacolo continui,e che tu puoi contribuire con un verso(Walt Whitman)
Vocativo. Vocazione. Invocazione. Evocazione. Convocazione. Chiamata! Oh Sole! Oh Musa! Oh me! Oh vita! Pronuncio un nome senza volerlo contornare di altro, senza aggiungere o togliere niente al suo semplice esserCi - quel Dasein che è l'essenza di tutto ciò che resta quando si rimane in cammino senza pretendere di raggiungere alcunché, perché l’essenza del linguaggio è radura luminosa che si disvela rimanendo in ascolto. L’essenza sono i versi mancanti di una poesia scritta, il taciuto, le tracce del compiersi ma non il compiuto. “è quello che viene dopo il messaggio che inviate sul cellulare” – scherza (si fa per dire!) Agamben rivolgendosi ai tanti giovani presenti, sono gli dei fuggiti, mi viene da replicare per un gioco di corrispondenze dal sapore baudeleriano, quegli dei delle poesie di Hölderlin il cui canto è sospeso tra il non ancora e il mai più…
"Più non son gli dei fuggiti, e ancor non sono i venienti" …
Ma è proprio in quel limbo che si radica la lingua senza radici, la Poesia delle poesie, il cuore pulsante di ogni ricerca interiore non può che sfociare qui, in un disarmato e disarmante urlo di meraviglia (emaho!) di fronte all’Innominabile chiarore della splendente vacuità, il grado zero di qualsiasi linguaggio discriminante, il silenzio da cui cogliere la vocazione, la chiamata, appunto, la lingua che chiama. "Il chiamare che raccoglie in sé ogni possibile chiamare" (Heidegger), il linguaggio muto degli dei, dello spirito, della vivificante rinuncia a voler capire, interpretare, sapere ciò che si crede di sapere.
La pura presenza del Vocativo. La pura esistenza del Vocativo. La beatitudine del Vocativo. Pura possibilità di esistenza, di essere poeticamente al mondo, di fare anima: poesia, dal verbo greco poiein = fare. Per un gioco di rimandi, è il SatCitAnanda delle Upanishad che mi viene in mente, quella Esistenza (Sat) che è pura Coscienza (Cit) e Beatitudine (Ananda), e che è beatitudine per il puro fatto di essere cosciente di esistere.
Coscienza innominabile e dunque poetica e dunque intensamente creatrice perché dove non c’è niente da dire, rimane l’Amore.
Il Vocativo è Amore puro: pronuncio il tuo nome senza voler aggiungere altro, senza uno scopo, senza un fine, senza volerti comprendere, possedere, avere… Ti chiamo, ti invoco, sposto i confini del quotidiano nello sconfinato universo polisenso del tutto è possibile. Resto in attesa, in ascolto. Ti chiamo, ti amo. Chiamo, invoco, amo. E lo faccio dal fondo della quiete da cui ogni poetare trae origine. Poesia, la lingua che chiama. E che cos'è questa Chiamata? È il suono della quiete.
"Oh musa celeste,Diotima,vieni a placarmi questo Caos del tempo" (Friedrich Hölderlin) |
La pura presenza del Vocativo. La pura esistenza del Vocativo. La beatitudine del Vocativo. Pura possibilità di esistenza, di essere poeticamente al mondo, di fare anima: poesia, dal verbo greco poiein = fare. Per un gioco di rimandi, è il SatCitAnanda delle Upanishad che mi viene in mente, quella Esistenza (Sat) che è pura Coscienza (Cit) e Beatitudine (Ananda), e che è beatitudine per il puro fatto di essere cosciente di esistere.
Coscienza innominabile e dunque poetica e dunque intensamente creatrice perché dove non c’è niente da dire, rimane l’Amore.
Il Vocativo è Amore puro: pronuncio il tuo nome senza voler aggiungere altro, senza uno scopo, senza un fine, senza volerti comprendere, possedere, avere… Ti chiamo, ti invoco, sposto i confini del quotidiano nello sconfinato universo polisenso del tutto è possibile. Resto in attesa, in ascolto. Ti chiamo, ti amo. Chiamo, invoco, amo. E lo faccio dal fondo della quiete da cui ogni poetare trae origine. Poesia, la lingua che chiama. E che cos'è questa Chiamata? È il suono della quiete.
Perché l'amorerisponde semprea una chiamataL'amorecorrisponde sempre a un'attesama si compienell'istante. Di quale tempo?Mi fa tremare le ossal'innamoramento precocedi ciò che resta:Io, in silenzio, da sola
(Cecilia Martino, tratto da “Solstizio poetico”
Dicembre 2016)
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