26 aprile 2019

La lanterna di Diogene | La Saggezza del Freddo e del Caldo

Jean-Léon Gérôme Diogenes

In una botte viveva Diogene, e in una botte si sente freddo, a volte. 
Ma il Cane aveva parlato col Freddo, aveva parlato a lungo nelle lunghe notti. 
Al Freddo Diogene aveva chiesto la sua saggezza, e il Freddo risponde a chi possiede un cuore caldo. E fu così che il Freddo e il Cane ingannarono la notte.
“La mia saggezza?”, esclamò stupito il Freddo.
“Gli uomini non chiedono mai della mia saggezza. Tu sei un uomo strano, Diogene”.
“Non sono un uomo”, rispose Diogene. “Non vedi? Io sono un Cane”.
“E che cosa ci fa un cane a questa tarda ora in una botte?”, chiese il Freddo. “Non credi che dovresti trovarti un padrone e dormire al caldo in una cuccia?”.
“Che cos'è che mi proponi”, chiese Diogene, “una cuccia o un padrone?”.
“Eh, eh, mio dolce randagio, non c’è cuccia senza padrone”, rispose il Freddo.
“Ma c’è pur sempre una botte”, disse Diogene.
“Ma non è calda”, aggiunse il Freddo.
“Ma non è una prigione”, concluse deciso Diogene. 
“Sei nella mia saggezza”, rispose il Freddo. “Nessuno può starsene per sempre al caldo, a ogni estate segue un autunno. Chi non è abituato al freddo morirà all'inizio dell’inverno. E per chi vi è avvezzo non fa poi tanto freddo da non arrivare a una nuova primavera”.
E così si fece giorno.


In una botte viveva Diogene, e in una botte si sente caldo, a volte. 
Ma il Cane aveva parlato col Caldo, aveva parlato a lungo nelle lunghe ore del meriggio. 
Al Caldo Diogene aveva chiesto la sua saggezza, e il Caldo risponde a chi possiede uno sguardo freddo. E fu così che il Caldo e il Cane ingannarono il meriggio.
“Della mia saggezza ognuno crede di esserne a conoscenza, ma pochi sono gli uomini che ne vedono la trama”, disse il Caldo.
“Non faccio fatica a crederci”, rispose Diogene, “ma io non sono un uomo. Non vedi? Io sono un Cane”.
“E che ci fa un cane a quest’ora del giorno a riposarsi in una botte?”, chiese il Caldo. “Non dovresti essere in giro affaccendato a cercare un padrone?”
“E a cosa mi servirebbe un padrone?”, chiese il Cane.
“Potresti avere più cibo, di qualità migliore”, rispose il Caldo. “Potresti avere più carezze e una cuccia più comoda”.
“E poi?” chiese il Cane. “Che cosa farei ottenuto tutto questo?”
“Beh, finalmente potresti riposare”, rispose il Caldo.
“E non è forse quello che sto già facendo?”, chiese il Cane.
“Sei nella mia saggezza”, sorrise il Caldo. “Tutti ricercano con frenesia la quiete, lamentandosi che essa non giunga mai loro. Se solo rallentassero un attimo, avrebbero già ottenuto una quiete maggiore
”.
E così si fece notte.

(Tratto da "Vita da cani" Diogene e la filosofia che morde, Niccolò Cappelli)




Buddha riassumeva le cause della sofferenza umana nel fatto che "si vuole sempre ciò che non si ha e non si vuole ciò che si ha". Metaforicamente parlando - nel contesto provocatorio di Diogene - si vuole il freddo quando fa caldo e il caldo quando fa freddo e non si è mai contenti di ciò che c'è nel momento presente perché imprigionati dai bisogni creati dalla e nella nostra stessa gabbia mentale. Il motore del desiderio (quel padrone-ego che il cane randagio-Diogene non vuole proprio seguire) come leva verso qualcosa di sempre diverso, passando da un desiderio all'altro, in una incessante ricerca con sforzo verso il superfluo, in quanto impermanente. Tornare all'essenziale di ciò che è la nostra vera natura, essere umani in quanto presenti a se stessi - la "ricerca dell'uomo" della lanterna di Diogene - riposare nella naturalezza dei ritmi universali, togliere lo sforzo psicologico a un incedere spontaneo della vita più aderente ai dettami della natura.
La vera libertà è una conquista interiore che per lo più accade proprio quando si smette di fare, di volere, di afferrare, di pretendere, di desiderare le cose sempre diverse da come sono, di conformarsi (letteralmente, prendere forma, identificarsi solo con ciò che è visibile) e rincorrere ottenimenti esteriori continuamente diversi e impermanenti.
In sostanza gli aneddoti della vita anti-conformista, anti-sociale, anti-civile anti-buone maniere, anti-tutto di Diogene mordono su questo punto. 

Il poeta mistico tibetano Milarepa andava in giro nudo nutrendosi solo di ortiche (per questo raffigurato spesso con il corpo di colore verde), Francesco di Assisi si denudò delle sue ricchezze scegliendo di indossare ben altre vesti! L'allusione di queste "rinunce" è facile da intuire, se non prese alla lettera quantomeno simbolicamente parlando. 
Il richiamo dell'anima selvaggia (il cane randagio, le ortiche, il dialogo con gli elementi della natura) è l'eco di una saggezza intuitiva che va ben oltre le facili scorciatoie del pensiero comune, massificato, sclerotizzato, dogmatizzato, eccessivamente materializzato o anche spiritualizzato ma solo concettualmente. La via comoda del consenso, della fama, del plauso, della finta socievolezza, della sofistica intellettuale.
Il ritorno alle nostre vere Origini, non può che passare per un atto di ribellione a tutto questo, poeticamente parlando è un richiamo della foresta vero e proprio, e non sempre è docile o rassicurante.

"Non esiste che un modo per andare oltre: attraversare tutto ciò che c'è! Fidarsi della naturalezza delle cose, togliersi importanza personale, tornare alla Natura il più e il prima possibile e … godersi il viaggio, passo dopo passo. Senza fretta, apprensione e aspettative. Accogliere dallo stato naturale la grazia della resilienza, della vigile innocenza, della pazienza attiva. La vita evolve attraverso di noi e ogni singolo passo fatto con questa arrendevole consapevolezza aumenta l’esistenza a noi e a chi ci circonda. Ogni strada non è un percorso solo se ci rifiutiamo di camminare. Anche da fermi, purché le nostre ossa continuino a scricchiolare per benino! Con la fluente calma dell’eterno movimento che toglie peso a ciò che deve accadere. Toglie peso alla pesantezza di ciò che crediamo di essere." (Tratto da : "Il richiamo della foresta")



“Io sono Milarepa, grande per fama, 
la diretta progenie della Memoria e della Saggezza;
Eppure io sono un uomo vecchio, derelitto e nudo.
Dalle mie labbra esce una canzone breve, 
perché tutta la Natura, a cui io guardo, è il mio libro.
Il bastone di ferro, che le mie mani stringono, 
mi guida sull'Oceano della Vita che Cambia.
Maestro io sono della Mente e della Luce;
E mostrando azioni e miracoli, non dipendo da divinità terrene”.

(Cit. in: W.Y. Evans-Wentz (a cura di), Milarepa – Il grande Yogi tibetano)




"Devo ringraziare l'autrice 
perché Cecilia ci immerge
come una nuova Diogene 
in un percorso che forse tendiamo a dimenticare 
quello che ci riporta verso 
il tempo giusto
il momento della riflessione
del sentirci dentro"

(Alessandra Sannella - Docente in Sociologia e Politiche Sociali presso 
l'Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale )

L'INTERVISTA DI ARACNE TV 


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24 aprile 2019

La lanterna di Diogene | Una vita senza fiuto

Johann Tischbein, Diogene cerca l'uomo


I colori della sera s’oscurano di una luce indefinita, quando i contorni e gli oggetti da essi racchiusi lentamente ritornano a un principio che tutto assorbe: è il crepuscolo.
Gli uomini si fanno raminghi, stringendosi nel manto notturno come in una veste ornata di stelle. Piccole luci di fiaccole serpeggiano tra le strade, dando forma a una via lattea dalle tinte metropolitane.
Quando il crepuscolo ci chiama, quando ogni giorno richiama la nostra attenzione a tutto ciò che si conclude per dar vita a un nuovo inizio, altri sembrano gli uomini che popolano la Terra, o altri gli uomini che in noi prendono vita.

Soltanto alcuni ne avvertono il mistero, coloro che vedono ombre nel buio che i molti non riescono a vedere, coloro che soli fuggono verso il Solo.



Diogene sapeva tutto questo, e proprio per questo nulla aggiungeva se non un sorriso fatto di rimando al Cielo e alla Terra, e a ciascuno fra coloro che in quel sorriso riusciva a udire tutti i suoni del mondo.
Era il crepuscolo, e alla mente poetica si aggiungeva il gorgoglìo di uno stomaco vuoto. Diogene era poeta, ma anche i poeti hanno fame; anzi ne hanno il doppio di un uomo di prosa, perché in loro assieme allo stomaco costantemente reclama la sua parte una insaziabile fame di bellezza.
Era il crepuscolo, e comunque la si voglia mettere Diogene aveva fame.
Tra le bianche pietre che pian piano assorbivano il colore della notte, Diogene se ne stava adagiato chiedendo l’elemosina.
La folla un po’ lo turbava sempre, gli ricordava quei molti che non riconoscono le ombre nel buio.



A volte Diogene guardava gli altri chiedendosi come gli altri vedessero lui.
Beh, un po’ se lo immaginava, ovviamente, ed esperienze a riguardo non gli mancavano certo. Ma quello che Diogene si chiedeva non era esattamente cosa gli altri vedessero in lui, ma cosa di lui si vedessero gli altri. Perché lui negli occhi degli altri vedeva un altro Diogene, un altro possibile sé, un cane domestico, potremmo dire.
Lui, che di randagio vestiva i panni della naturalezza, dove gli altri indossavano gli ornamenti della civiltà; lui, che di randagio possedeva la libertà di parola – della quale peraltro faceva largo uso – mentre gli altri possedevano le norme dell’etichetta; lui, che di randagio respirava l’aria fredda se faceva freddo, e l’aria calda se faceva caldo, mentre gli altri correvano al caldo se faceva freddo, o correvano al freddo se faceva caldo; lui, che di randagio aveva lo sguardo sprezzante per le comodità, pur non facendo niente che gli arrecasse una fatica inutile, e gli altri che, pur essendo indaffarati ogni istante della loro vita, agognavano senza sosta una vita fatta di comodità. Lui, che di randagio più che altro non aveva, e gli altri, che al contrario avevano, più che altro.



Chissà se loro si vedevano altri in lui, se si vedevano spogliati, messi a nudo, se si vedevano randagi. Chissà. Eppure anche se non avrebbero voluto assomigliargli esternamente – e questo Diogene lo sapeva, non era un illuso – ciò che lui portava dentro era esattamente quello che loro andavano cercando.
Ma lo si può trovare dove essi lo cercano?
Lo si può forse raggiungere come essi cercano di raggiungerlo? Diogene credeva di no.
No, non lo credeva: Diogene lo sapeva. Una bella casa, certo, non una botte. Dei bei vestiti, e non quelli vecchi di Diogene. E perché no: anche del cibo raffinato e abbondante, e non lo stomaco vuoto di un cane. Erano cose brutte, forse? No, non lo erano. Una bella casa e un bel vestito non possono essere brutti, non lo possono per definizione. E allora? Non è forse onesto aspirare a tutto questo? Non lo è, Diogene? Certo che lo è, ma ci vuole fiuto, stupidi umani!

Ecco che cosa manca agli uomini, il fiuto magistrale del cane. E nella vita senza fiuto si perde la strada.

Anche un fiore può avere forma e colori di squisita bellezza, ma quello stesso fiore può essere velenoso. Ci vuole fiuto. Diogene si vedeva un cane domestico e non si piaceva. Era più pulito, più profumato; era più in carne e più riposato, ma non aveva più lo stesso fiuto. Era più tante cose, ma era meno se stesso. Diogene era meno felice.


O virtù! Scienza sublime delle anime semplici, occorre proprio tanta fatica e tanto apparato per conoscerti? Non sono forse i tuoi princìpi scolpiti in tutti i cuori, e non basta per imparare le tue leggi rientrare in se stessi e ascoltare la voce della propria coscienza nel silenzio delle passioni? Ecco la vera filosofia. (Jean-Jacques Rousseau, non a caso sarà definito un Diogene raffinato)

È questo il grande desiderio di Diogene: trovare l’uomo, l’uomo che vive in armonia e coerenza con la sua più intima natura, al di là di tutte le convenzioni e gli artifici con i quali ha soffocato la sua autenticità. E quando diciamo che Diogene cercava l’uomo, intendiamo proprio che lo cercava fisicamente, aggirandosi in pieno giorno per le strade di Atene con una lanterna accesa in mano, inaugurando così quell'arte basata sulla provocazione che da Diogene in poi sarà l’arma filosofica prediletta dai cinici.


(Tratto da "Vita da cani" Diogene e la filosofia che morde, Niccolò Cappelli)



Leggi anche, tratto da un mio viaggio in Grecia:


John William Waterhouse, Diogene


"Perché lui aveva tutto quello che serve a uno scribacchino per salvarsi: lo sguardo primitivo che agguanta fulmineo dall'alto il suo nutrimento; la naturalezza creativa, che si rinnova ogni mattino, con cui guardare incessantemente alle cose come se fosse la prima volta e che restituisce la verginità ai secolari elementi quotidiani - vento, mare, fuoco, donna, pane; la sicurezza della mano, la freschezza del cuore, l'ardire virile di beffarsi della propria anima, come se avesse dentro di sé una forza superiore dell'anima stessa; e infine la risata limpida e selvaggia che scaturiva da una sorgente profonda, più profonda delle viscere dell'uomo, e che nei momenti cruciali esplodeva liberatoria dal vecchio petto di Zorba; esplodeva ed era capace di demolire, e demoliva tutte le barriere - morale, religione, patria - che le persone sventurate e impaurite erigevano per sfangarsela senza troppi danni nella propria misera vita" 

(Zorba il Greco, Nikos Kazantzakis) 



Leggi anche, dal Blog: 


"Un uomo? Che cosa vuol dire?" "Che sono libero"


"Devo ringraziare l'autrice 
perché Cecilia ci immerge
come una nuova Diogene 
in un percorso che forse tendiamo a dimenticare 
quello che ci riporta verso 
il tempo giusto
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del sentirci dentro"


(Alessandra Sannella - Docente in Sociologia e Politiche Sociali presso
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L'INTERVISTA DI ARACNE TV









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16 aprile 2019

La persona non può amare - Voler essere amati è un concetto (Eric Baret)


Non si può amare qualcuno, è una fantasia. La personalità non può amare. 
Amare è ciò che essenziale, non è qualcosa che si possa fare o no.
Quando si smette di fare, resta l'amore.
Ma amare qualcuno, si ama qualcuno quando corrisponde alla nostra fantasia, la persona che amate, se fa questo o quello, non la amerete più. Un amore che comincia e che finisce non è veramente un amore. 
Amare è ascoltare, è essere presenti. 
Amare i figli significa non chiedere loro niente e dare tutto. Un giorno essi spariranno, non saranno più in contatto con voi. Chiedere a vostro figlio di telefonarvi, di darvi notizie, non è amore. Il figlio fa quel che sente il bisogno di fare. Non si domanda niente a un figlio, ma amare qualcuno sul piano umano è una fantasia. L'ego non può amare, utilizza, pretende, si rassicura. Quando trovate qualcuno che corrisponde alla vostra fantasia fisica, psicologica, intellettuale, affettiva, dite di amarlo profondamente. Quando questa persona poi fa qualcosa di diverso allora diventa detestabile.
Non si può amare qualcuno, sentire una forma di amore è profondamente giusto, è prima della fantasia dell' "amo qualcuno", il sentimento di amore è profondo, essenziale ma, per mancanza di maturità, si pensa di amare qualcuno, in realtà si ama semplicemente, perché l'amore è senza direzione. 
Ciò che amo è quel che è presente davanti a me, non c'è niente d'altro.
Cosa potrebbe esserci di più bello, di più straordinario di ciò che si presenta a me  nell'istante se non ho l'idea che la bellezza e la saggezza siano altrove?
L'amore è ciò che è quando si smette di pretendere di amare qualcuno. 
Amare qualcuno, voler essere amati è una storia.

Che vuol dire essere amati? Nessuno vi ama, nessuno vi amerà mai. Nessuno vi ha mai amato, ed è meraviglioso così. Le persone non possono che pretendere. Se corrispondete ai loro criteri psicologici, fisici affettivi, vi amano quando vi incontrano. Se corrispondete al contrario, vi detestano. E allora? Ci sono dei cani che vi amano, e altri che non vi amano. E' biologico. Perché occuparsi di queste cose, cosa significa essere amati? E' una fantasia. Cosa importa che qualcuno proietti su di me una attrazione o una repulsione, è completamente fantasmatico. 


A un certo punto vi rendete conto di non aver bisogno di amare né di essere amati. Cosa resta? Resta il sentimento d'amore, questa comunione che si ha tra tutti gli esseri e che non è direzionale. 

Vi rendete conto che amare spetta a voi, quel che vi rende felici è amare. Se qualcuno dice di amarvi profondamente ma voi non lo amate, questo non vi porta niente. Per contro, quando amate questo vi rende felice. Le cose dunque erano viste al contrario. Amare spetta a me. Quando amo il mio corpo, la mia mente, il mio ambiente, c'è tranquillità. Ma voler essere amati è un concetto. 

Quando amate non amate qualcuno, amate e basta. La persona con cui vivete, dormite o andate al cinema, è un'altra cosa. Non potete dormire con tutti o abitare con tutti, una selezione organica s'impone ma l'amore non si colloca qui. Non è perché dormite con qualcuno che lo amate di più di un altro con cui non dormite. Non è perché vivete con una donna che l'amate di più di un'altra con cui non vivete. E' funzionale. Ci sono persone che amiamo profondamente e non viviamo con loro, le circostanze non ci sono. Non ho bisogno di amare qualcuno per vivere con lui, dormire o andare in viaggio con lui, questo accade a un altro livello. Ma amare qualcuno prima o poi vedrete che non vuol dire niente. E' come prendersi per qualcuno, ad esempio prendersi per un francese, è un'immagine.
Posso essere stimolato da qualcuno, quando il mio corpo passa a 30 metri da un certo altro corpo, una forma di intensità si manifesta e a 10 metri è ancora più intensa e quando ci si sfiora è come una follia che arriva: il suo odore, la forma del suo corpo, il suono della voce, il modo di muoversi, la sua dolcezza o la sua violenza, la sua ricchezza o la sua povertà fanno sì che io sia toccato. Ma perché mettere la parola amore in tutto questo? E' puramente chimico. A seconda di cosa assomigliava vostro padre, vostro nonno, se a 3 anni siete stati picchiati o accarezzati, amerete questa o quella forma di corpo, questo o quell'odore, questo o quel movimento.
La tale persona vi attira, un'altra per niente. Questo risale a molto, molto lontano. Non c'è da mettere la parola amore su tutto questo. E' solo quando vedete chiaramente questo, che potete vivere con qualcuno, sposarvi, avere figli, senza bisogno di recitare. Allora vivete funzionalmente con qualcuno, con tutto il rispetto e l'ascolto che questo implica. Ma non siete obbligati a credere che i vostri figli sono i vostri figli, che i vostri genitori sono vostri genitori, che vostro marito è vostro marito. Lo sono anche, certo, occasionalmente.

Amare è ascoltare. Siete in presenza di una situazione con qualcuno, lo ascoltate, ascoltate ciò che è non solo quello che pretende di essere, ascoltate profondamente senza commenti. Quando ascoltate, i vostri figli sono perfetti, vostro marito è perfetto, i vostri genitori sono perfetti, il vostro corpo è perfetto, la vostra mente è perfetta. Tale è la chiara visione che proviene dall'ascolto. Quando penso che i miei figli, mio marito, il mio corpo devono cambiare, significa che non ascolto. Parlo, ho una ideologia a proposito di ciò che è giusto e di ciò che non lo è e questo è fascismo, volere che gli altri siano come io decido che dovrebbero essere. Questo fascismo psicologico non ha senso. 

Amare è rispettare. Rispetto il mio prossimo, mio figlio, mio marito, mio padre, la società e tutte le violenze che ho subito. Rispetto ciò che è qui. Questo non giustifica niente. Io non devo giustificare, la vita non deve essere giustificata, essa è quel che è. 

Affronto la realtà, non quello che la realtà dovrebbe essere secondo la mia fantasia intellettuale. Il vicino è esattamente come deve essere, non può essere diversamente. Quando vedo chiaramente come funziona, ho dei buoni rapporti di vicinato. Quando il  mio vicino picchia sua moglie, capisco profondamente che la sua terribile sofferenza lo porta a picchiare sua moglie. Questo non vuol dire che in certi casi io non chiami la polizia, non faccia un'osservazione o non intervenga fisicamente. Vuol dire che so che quando picchia sua moglie lo fa per sofferenza e quando si è violenti è perché ci si sente aggrediti. Ci si può sentire aggrediti da un sorriso. 
In una totale assenza di critica c'è la comprensione della situazione, questo è per me il rispetto. Certi lo chiamano amore, ma amare qualcuno che favola straordinaria! Essere amato è una favola ancora più meravigliosa e il massimo è soffrire di non essere amati. 

Vedere come si funziona. Se do un biscotto al cane, il cane mi ama. Se lo picchio sul muso, non mi ama. Faccio qualcosa, mio marito mi ama. Vado a letto con suo fratello, non mi ama più. E allora? 
Lasciate le persone libere. Le persone mi amano, non mi amano, è meraviglioso così. Aver bisogno di essere amati è una moda che passerà, è il frutto di un'epoca un pò decadente. Aver bisogno di essere amati è una forma di malattia molto intensa sul piano somatico. E' terribile, come la gelosia, distrugge il sistema ormonale, il sistema cellulare.
Q
uesto bisogno di amore è un veleno. Il rimedio è amare. 

(Tratto dal libro "L'unico desiderio" di Eric Baret)
Tradizione tantrica non duale espressa nello yoga del Kashmir 

Leggi anche: 

Il miracolo non è quello di camminare sulle acque, ma di camminare sulla terra verde nel momento presente e di apprezzare la bellezza e la pace che sono disponibili ora". (Thich Nhat Hanh)



Consigli di lettura e di ascolto

L'Unico Desiderio
Nella nudità dei tantra
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E' meraviglioso amare
Essere presenti senza richieste
L'amore è plasticità, nessuna richiesta possibile
Sono io che devo dare
che devo amare 
Tutto quello che devo fare è essere disponibile
a tutto ciò che è possibile 
Tutto è flessibile
Occorre trovare una creatività nelle relazioni umane
Sono facili le relazioni umane, molto facili
basta amare quel che si incontra
Amare è donare la libertà 







Direzione non-direzione (Da "Il Vuoto che Danza" di Poonja)

Il Vuoto che Danza Voto medio su 3 recensioni: Da non perdere
€ 12,00

12 aprile 2019

Per scrivere belle poesie bisogna essere tristi?


Un luogo comune sostiene che per scrivere belle poesie bisogna essere tristi. Un mito da sfatare, replica Alda Merini a Gigi Marzullo durante un'intervista (per chi è su Facebook, visionabile qui, o altrimenti su Rai Play). E a fronte di un'altra domanda sull'esistenza di un confine tra dilettanti e poeti apprezzati, Alda Merini annuisce sostenendo che sì esiste il confine ed è: 

"lo studio, la preparazione, la cultura… tutti scrivono letterine d'amore, se la poesia non è sostenuta da una solida cultura a voglia a lasciarsi andare alle malinconie, all'amore! Bisogna studiare, bisogna crescere, bisogna frequentare anche i vicoli malsani!"

Personalmente sento che la natura poetica sia una qualità intimamente connessa alla nostra vera natura. Si può studiare e acculturarsi molto e fare buona, eccellente letteratura, ma un nutrimento spirituale è ciò che libera i potenziali per incarnare poesia, farne materiale vivente e non materia di studio, o critica letteraria. 
Per scrivere belle poesie non bisogna essere né tristi né allegri, ma poeti.
Non intellettuali, poeti.
Non virtuosisti della penna, poeti.
Risvegliarsi a un certo grado di sensibilità che consente a ciò che si scrive di trasmettere anima e non parole ben confezionate.


Mi trovo più affine alla risposta data da Rilke a quel giovane poeta che a lui si rivolse per sapere se i versi che stava componendo fossero buoni. E Rilke, così si esprime, nella parte clou della sua lettera: 

"C’è solo un modo. Guardi in se stesso. Esplori il fondamento che la chiama a scrivere; verifichi se esso estenda le sue radici nel luogo più profondo del suo cuore, si confessi se morirebbe qualora le venisse negato di scrivere. Soprattutto, nell'ora più silenziosa della sua notte, si chieda: devo scrivere? Scavi dentro di sé alla ricerca di una risposta profonda. E se questa dovesse essere affermativa, se lei può affrontare questa sincera domanda con un forte e semplice «io devo», allora edifichi la sua vita secondo questa necessità; la sua vita, fin nell'ora più insignificante e minuscola, deve essere segno e testimonianza di questo impeto. Poi si avvicini alla natura. Poi, come un uomo primitivo, cerchi di dire cosa vede ed esperisce e ama e perde."

Muhammad ibn Musa al-Khwarizmi

Detto questo, concordo sullo spessore che un certo tipo di approfondimento può restituire alla qualità dell'indagine personale. Approfondimento ha la stessa radice di profondità, che è una qualità essenziale per dialogare con l'autentico e non con l'artefatto. Ed è la qualità essenziale della poesia non dilettantistica, secondo me. Il suo opposto è la superficialità. Rimanere alla superficie restringe lo sguardo e la poesia - così come la vita - è sempre una questione di ampiezza di visione. Quell'apertura intima che faceva esclamare al poeta Rilke:

"Io imparo a vedere. Non so perché tutto penetra in me più profondo e non rimane là dove, prima, sempre aveva fine e svaniva. Ho un luogo interno che non conoscevo. Ora tutto va a finire là. Non so che cosa vi accada."

"Bisogna studiare, bisogna crescere" ma - soprattutto aprirsi alla vita tutt'intera "frequentare anche i vicoli malsani".


Dilettante è, a mio modo di vedere, colui che è distante dal luogo delle origini e, dunque non è originale nel vero senso della parola. Questione vitale, non di mera estetica. 
Ciò che a me piace evocare come un "essere poeticamente al mondo". 


Il luogo delle origini è l'intimità accogliente della nostra natura pre-linguistica, pre-storica e pre-culturale.
Più un poeta è prossimo a quel luogo, che è dimora del silenzio, più è originale e i suoi versi cantano la vita. Poesia è apertura al dialogo silenzioso interiore, armonia che si disvela in un ritmo non violento. Non violento perché naturale e non artificiale o artificioso. Il Poeta cerca parole per esprimere l’inesprimibile e trova il silenzio. Da quel silenzio, poi, trova le parole.

[...] Le espressioni piene di anima del poeta fluiscono senza sforzo, proprio perché "piene d'anima". Tutto considerato non esiste alcuna forma poetica definita, poiché un poema che sorghi spontaneamente dalla Fonte si muove animato dalla sua stessa forza e non obbedisce a nessuna legge umana prestabilita. La sola legge è che non c'è alcuna legge.

[...] Tieni presente che io intendo la parola "poeta" nella sua accezione più elevata. Un poeta non può vivere che per la sua arte. che egli ama in quanto arte, e non come mezzo per assicurarsi vaghe soddisfazioni terrene. Un poeta vede gli uomini e le cose nella loro essenza più semplice, a tal punto di giungere quasi a toccare Tao, se così si può dire. L'uomo comune non distingue che confusamente ciò che lo circonda, come attraverso una fitta nebbia. Il poeta non si sbaglia"




Cosa è la poesia per me: intervista Aracne Tv

State dove siete, non cambiate nulla! Jean Klein e la non-direzione



Jean Klein non chiedeva niente. È quello che mi ha più segnato accanto a lui. Non vi chiedeva di cambiare. Non aveva nessuna violenza verso i vostri comportamenti (Eric Baret)



Domanda:

Voi dite che la sensibilità è una porta verso il silenzio. È vero che quando io mi concentro sul mio corpo, una tranquillità viene e questo mi rende felice. Io mi domandavo se questo faccia parte solamente di un immaginario, di una speranza… Ha conosciuto lei con il Sig. Jean Klein, questo spazio di entusiasmo, questa sensazione che io ho di aver trovato qualcosa di straordinario?


Risposta:

Jean Klein non chiedeva niente. È quello che mi ha più segnato accanto a lui. Non vi chiedeva di cambiare. Non aveva nessuna violenza verso i vostri comportamenti. Jean Klein vi incontrava, vi vedeva tale quale voi eravate, con i vostri conflitti, i vostri problemi e neanche un istante vi voleva cambiare, neanche di un millimetro. È un rispetto straordinario! Pensate a tutti i guru, a tutti gli insegnanti che trasformano i loro allievi e, a lor dire, li chiarificano: questo crea forse altro che degli ego infatuati di loro stessi, che si sentono sempre più separati da loro stessi, dall'universo intero?

Non richiedeva alcuna trasformazione e non ha mai indicato alcuna cosa negativa tra i suoi amici. Voi entravate nella sua camera e lui si meravigliava della vostra bellezza, non vedeva nient’altro. Naturalmente, la bellezza che vedeva era la sua, ma questa meraviglia che egli aveva della sua propria bellezza si rifletteva in voi. A vostra volta, voi eravate meravigliati della sua bellezza. Questa bellezza era allora la vostra. Voi vi sentivate invitati a restare all'ascolto di quello che era lì, profondamente, senza mai forzare. Né violenza, né richiesta: voi vi sentivate totalmente libero. Voi potevate diventare questo o quello, lui non aveva opinione. Per lui, qualunque cosa foste diventati, era giusta.

Questa atmosfera di non-richiesta creava una forma di risonanza. Certe persone che avevano passato la loro vita a volersi cambiare, purificare, si risvegliavano a una sorta di rispetto di se stessi. Senza sollecitazione, l’ascolto delle loro problematiche si compiva. In questo ascolto, in modo spontaneo, i problemi si liberavano.

Jean Klein non aveva la minima esigenza. È per questo che persone di differenti orizzonti venivano a vederlo. Riceveva sia un gangster legato alla grande criminalità che un ministro dell’Interno, un coltivatore di marijuana, dei banchieri dell’alta finanza, degli artisti esuberanti e dei piccoli borghesi traumatizzati da ogni forma di creatività. A tutti, trasmetteva lo stesso insegnamento: “state dove siete, non cambiate né stato sociale, né modo di essere ma diventate disponibili al vostro funzionamento emozionale, intellettuale e sensoriale. Il silenzio che cercate non si trova da qualche parte ma nella vostra presenza a ciò che si presenta.” Ognuno usciva maggiormente disponibile alle proprie caratteristiche.

In questo accoglimento, si verificava un cambiamento. Era quasi insensibile, Jean Klein non voleva che le persone cambiassero esteriormente, non voleva avvenimenti psicologici intorno a lui. Tutta l’esperienza mentale era considerata come una mancanza di visione, una compensazione. La frequentazione del Samadhi in qualsiasi forma, dell’assorbimento che ci taglia dalla vita oggettiva, era per lui una mancanza di prospettiva e avrebbe creato inevitabilmente delle crescenti difficoltà a far fronte alla vita di tutti i giorni. Non era questione di uscire dal mondo oggettivo per trovare la pace, piuttosto di presentire questa pace nella quale il mondo appare e scompare.

Dinanzi a lui, la vibrazione che s’imponeva spazzava via l’apprensione del mondo oggettivo, per meglio realizzarsi come una tela di fondo sempre presente nelle percezioni quotidiane. Questa vibrazione lasciava progressivamente la sua caratteristica percettibile per diventare la luce che illumina ogni percezione. A un certo punto, allo stesso modo in cui non si può percepire la luce, diveniva impossibile percepire la vibrazione in maniera oggettiva.

Su un certo piano, controllava questo e trasmetteva questa forma di sensibilità. Diceva che il suo maestro, che considerava come molto più potente di lui, doveva costantemente sorvegliarsi per evitare che quelli che lo approcciavano, vivessero delle esperienze particolari. Senza questo, egli avrebbe messo l’accento su delle situazioni oggettive, su un cambiamento, e si sarebbe fissato sull'esteriore, sul piano psichico.

Tutto questo non gli impediva di fornire, individualmente e in casi specifici, dei consigli tra i più virulenti, tanto sulla pratica yoga che dal punto di vista alimentare – dove la pelle e i semi di pomodoro potevano diventare dei nemici drammatici-, sulla vita amorosa o sessuale – dove era fortemente prodigo di consigli tecnici. I suoi consigli potevano estendersi alla vita politica, agli investimenti bancari, alle opinioni musicali o a tutt'altro soggetto sociale. Ma i suoi consigli illuminanti non acquisivano il loro significato compiuto sino a quando l’allievo non aveva presentito veramente la non-direzione, l’assenza del bisogno di appropriarsi di una qualsiasi caratteristica. Non puntava ad una purificazione in vista di un risveglio: era l’orchestrazione nello spazio-tempo, la trasposizione nella vita di tutti i giorni del presentimento dell’essenziale. Tendeva a far risuonare in sé una disponibilità emozionale, intellettuale e fisica nella quale la vita senza intenzione poteva prendere forma senza troppe resistenze.

In Jean Klein, non c’era divenire, non c’era direzione. Nient’altro che il rispetto di quello che era. Questo generava intorno a lui una straordinaria distensione. Poiché non si doveva più cambiare, ci si sentiva placati. Si era richiamati al suo ascolto più intimo: la presenza. In questa presenza alla vita, la vita, la natura potevano cambiare. Ma il bisogno di trasformarsi, di chiarirsi, poco a poco ci abbandonava.

Tutto era giusto. Non c’era da liberarsi di nulla. Liberarsi era una forma di violenza: questo significava che la cosa non era matura. Quando il trauma è maturo, ci lascia: non c’è da rifiutarlo, da eliminarlo. Una ferita è rispettabile, è un bisogno – prova ne è la sua presenza. Jean Klein ci insegnava a vivere con essa, a ascoltare senza aspettativa. In questa ricettività, pacificamente, il trauma a poco a poco veniva a galla. Quando trovava sufficientemente spazio in noi, si vuotava. Evidentemente questo approccio era in contrasto con tutte le scuole yogiche che vogliono estirpare i traumi. Quando si lascia una sicurezza volontariamente, immancabilmente l’organismo ne cerca un’altra, è senza fine.

L’emanazione del suo insegnamento arrivava da questo rispetto. Era il più prezioso: sapere che non ho bisogno di niente. Un’autentica non-violenza. Riguardo all'approccio corporale, quando è divenuto chiaro e facile immergersi in un bagno tattile, abdicare il corpo in questo silenzio, come lei, ho avuto la sensazione di aver trovato qualcosa di straordinario. Avere, non importa in che momento, la possibilità di sprofondare il corpo nell'irraggiamento è un regalo meraviglioso… È tuttavia molto meno straordinario di trovarsi in presenza di qualcuno che ascolta, che si meraviglia di tutti gli aspetti del vostro essere, che non trova nulla da ridire. La sua visone della perfezione vi portava ad ascoltare la vita senza la minima critica.

(Estratto dal libro "De l'abandon", raccolta di incontri con Eric Baret.
Traduzione tratta dal Blog Sundaram)



La nostra pienezza si compie lontano,  
nello splendore degli sfondi.

(Rainer Maria Rilke)


Caspar David Friedrich - La stella della sera (1830)

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