Continua da: VARANASI DEEP IMPACT
Man mano che mi avvicino al fiume sento montare un'emozione fortissima come se già qualcosa scorresse dentro di me, come protuberanza di quello strato di polvere che calpesto e che respiro da qualche ora ininterrottamente, come propaggine irrisolta dell'aria densa di fumi e pulviscoli, come un'architettura sottile fatta di pensieri talmente labili da non potersi aggrappare a niente, come se non fosse possibile altrimenti. Al cospetto della Madre Ganga, infatti, bisogna arrivarci senza pensare a niente.
Man mano che mi avvicino al fiume sento montare un'emozione fortissima come se già qualcosa scorresse dentro di me, come protuberanza di quello strato di polvere che calpesto e che respiro da qualche ora ininterrottamente, come propaggine irrisolta dell'aria densa di fumi e pulviscoli, come un'architettura sottile fatta di pensieri talmente labili da non potersi aggrappare a niente, come se non fosse possibile altrimenti. Al cospetto della Madre Ganga, infatti, bisogna arrivarci senza pensare a niente.
E così è stato. Passo dopo passo, accelerando solo nel pressing forzato dei risciò e delle motociclette che ti sfrecciano continuamente alle spalle, attenta a schivare mucche impiantate come isole pedonali in mezzo a qualsiasi strada e a non calpestare cani addormentati e immobili come fossero privi di vita, attenta a respirare dal naso per non ingurgitarne in gola troppa di quella polvere rasente il cielo.
Il camminare diventa quasi meditazione obbligatoria, esercizio costante all'attenzione: dove metti i piedi, dove ciondoli le mani, dove tieni lo zaino, dove posi lo sguardo, dove emetti il suono del saluto se qualcuno te lo rivolge, dove muti lo stordimento in sorriso, dove preghi se la mente ha un sobbalzo quando una motocicletta si prende più spazio del dovuto per la sua folle corsa sbriciolando quel che resta di un marciapiede tra i cumuli di rifiuti come stupa biodegradabili di fronte ai quali però chiunque passa scappa, invece di sgranare rosari.
Il camminare diventa quasi meditazione obbligatoria, esercizio costante all'attenzione: dove metti i piedi, dove ciondoli le mani, dove tieni lo zaino, dove posi lo sguardo, dove emetti il suono del saluto se qualcuno te lo rivolge, dove muti lo stordimento in sorriso, dove preghi se la mente ha un sobbalzo quando una motocicletta si prende più spazio del dovuto per la sua folle corsa sbriciolando quel che resta di un marciapiede tra i cumuli di rifiuti come stupa biodegradabili di fronte ai quali però chiunque passa scappa, invece di sgranare rosari.
Man mano che l'avanzata lascia scorgere la prima linea sottile dove l'azzurro del cielo incontra una lingua di sabbia e in lontananza posso riconoscere il manto dell'acqua scolpito come un mandala attorniato di sole, la commozione m'implode senza riserve lasciando attonita ogni pretesa di comprendere. Perchè certi cammini lasciano così poco spazio tra te e l'infinito.
Varcando il limite che conduce all'ingresso dell'Assi Ghat, il ghat che si trova esattamente sulla confluenza tra il Gange e l'Assi, l'ultimo a Sud della città, divento compartecipe del grande mistero, il fiume sacro che impone la sua reverenza all'India come una apoteosi senza scampo e divampa su di me una sollecitudine che mi toglie il fiato, l'irrefrenabile voglia di scendere gli scalini e toccare con mani e piedi quell'acqua, quel fluido sentimento, quel liquido amniotico che partorisce il sacro e che se ne riprende l'essenza, quell'umore dell'India che annega lacrime e sofferenza ansimando nel vuoto dell'esistenza, quell'ultimo rifugio per chi muore e spera di non dover ricominciare da capo su questa terra, quell'estasi convulsa che ti preme le meningi mentre il cuore batte all'inchino del Namaste.
Varcando il limite che conduce all'ingresso dell'Assi Ghat, il ghat che si trova esattamente sulla confluenza tra il Gange e l'Assi, l'ultimo a Sud della città, divento compartecipe del grande mistero, il fiume sacro che impone la sua reverenza all'India come una apoteosi senza scampo e divampa su di me una sollecitudine che mi toglie il fiato, l'irrefrenabile voglia di scendere gli scalini e toccare con mani e piedi quell'acqua, quel fluido sentimento, quel liquido amniotico che partorisce il sacro e che se ne riprende l'essenza, quell'umore dell'India che annega lacrime e sofferenza ansimando nel vuoto dell'esistenza, quell'ultimo rifugio per chi muore e spera di non dover ricominciare da capo su questa terra, quell'estasi convulsa che ti preme le meningi mentre il cuore batte all'inchino del Namaste.
Nell'aria ci sono suoni di tamburi, c'è il pulsare indomito del giorno prima della festa, i colori dell'Holi iniziano a sedimentarsi nelle pieghe dei respiri, dei vestiti e nelle rughe della pelle, tra le ciglia scure sbriciolate da uno sguardo troppo ardito davanti al sole che batte sulle acque del fiume restituendo alla terra qualcosa di incommensurabile. Il brusio è un sottofondo costante ma nel mio appropinquarmi alle sponde del Gange non posso che essere sola, sentirmi prezioso minuscolo brandello di meraviglia, lasciando da parte sentimenti e sentimentalismi, reduce solo da 14 ore di stremante viaggio, raduno le energie mentali per lasciare l'impronta digitale dell'anima mentre sfioro con le dita delle mani le acque che lambiscono i primi gradini del ghat, in un inchino volontario a spezzare la linea retta del mio corpo, lasciando i piedi a mollo a prendere dimestichezza con quel grembo maturo e malleabile così gravido di responsabilità.
Ringrazio per questo momento così irripetibile e ignaro, come lo sono tutte le prime volte.
Le barche ciondolano sull'acqua a cospetto della riva che inizia a popolarsi a dismisura, un giornalista della stampa locale con macchina fotografica al collo si precipita nella mia direzione esagitandosi nel volermi far sapere - come se ce ne fosse bisogno e come fosse lo scoop del secolo - che "It's Ganga, sacred river of India" ... ma il bisogno c'era per lui, perchè - sono sicura - voleva carpire da me l'espressione da turista occidentale immischiato per puro caso nelle sacralità indigene, focus esotico da immortalare per il suo servizio. Questa prima foto l'ho scampata, ma io e il mio gruppo siamo stati presi di mira e in men che non si dica ci ritroviamo attorno tutta la stampa locale in preda a una sorta di delirio da Happy Holi! tale da farci posare per un numero inimagginabile di foto sempre con le teste ravvicinate, il sorriso sgargiante e le mani aperte a mostrare i colori della festa che, nel frattempo, si erano inevitabilmente impossessati di noi.
Le barche ciondolano sull'acqua a cospetto della riva che inizia a popolarsi a dismisura, un giornalista della stampa locale con macchina fotografica al collo si precipita nella mia direzione esagitandosi nel volermi far sapere - come se ce ne fosse bisogno e come fosse lo scoop del secolo - che "It's Ganga, sacred river of India" ... ma il bisogno c'era per lui, perchè - sono sicura - voleva carpire da me l'espressione da turista occidentale immischiato per puro caso nelle sacralità indigene, focus esotico da immortalare per il suo servizio. Questa prima foto l'ho scampata, ma io e il mio gruppo siamo stati presi di mira e in men che non si dica ci ritroviamo attorno tutta la stampa locale in preda a una sorta di delirio da Happy Holi! tale da farci posare per un numero inimagginabile di foto sempre con le teste ravvicinate, il sorriso sgargiante e le mani aperte a mostrare i colori della festa che, nel frattempo, si erano inevitabilmente impossessati di noi.
Giallo, verde, rosso, fucsia, il viso inizia a deformarsi con le tinture della festa di Holi, polveri nella polvere, colori che schizzano, sporcano vestiti e levigano ferite, suscitano ilarità e ammettono trasgressione nel giorno che celebra la vittoria della luce sul buio, della stagione calda che inizia e riscatta dalle corte giornate invernali. Il giorno dove tutto è possibile, anche strafare, d'obbligo sporcarsi, stare agli scherzi e alle provocazioni, lasciarsi andare al motto di Buran na mano, Holi hai! / Non importa, è Holi!