16 aprile 2022

Rifiorire è darsi poeticamente al mondo


Vi siete mai percepiti in termini di spazio? Un approccio di questo tipo nella vita quotidiana può avere effetti strabilianti.


“SII prima di ogni addio, come fosse dietro

di te, come l’inverno che adesso se ne va.

Eppure tra gli inverni c’è un inverno così infinito, che,

a svernarlo, il tuo cuore sopravvive per sempre”.

(Rainer Maria Rilke)


La voce dei poeti è sempre un buon modo per iniziare a raccogliere spunti di intimità. 
E l’intimità è forse l’unico luogo da dove è possibile davvero rifiorire. 
Dalle profonde oscurità invernali germinano i semi della nuova luce.
Dare alla luce è un parto che ha inizio in zone interne ed invisibili.
Ce lo insegna la natura, ce lo insegna lo yoga. 

Gli antichi Rishi ai quali l’ispirazione si rivelò in forma di versi di carattere per lo più esoterico, furono profondi conoscitori del cosmo, delle leggi naturali e delle armonie nascoste di cui l’essere umano è non solo parte integrante, ma parte cosciente, che ne sia o meno consapevole. 

La vita sulla terra nel suo aspetto visibile materiale va di pari passo con il respiro invisibile della Coscienza, un aspetto quest’ultimo sempre più cruciale nel disvelarsi dei nuovi tempi in cui siamo già immersi. 

 “Noi siamo le api dell’invisibile” sussurra Rilke tra le righe di una lettera-poesia di cui riporterò alcuni versi alla fine dell’articolo. 

 “L’Anima è Scienza e risplende come il Sole che brilla nell’Uovo del mondo! Quel disco di luce bisogna cogliere, null’altro” (Le Upanishad dello Yoga, Mahavakya Upanisad – La Grande Parola)

Ciò che è essenziale è invisibile agli occhi, ma il fatto che non si veda non vuol dire che non esista e, soprattutto, che non possa essere visto grazie a “occhi nuovi”. È la “seconda vista”, la “seconda nascita” a cui non sono destinati solo santi, mistici, persone eccezionali in spirito e volontà, ma tutto il genere umano indistintamente.  Non tutti però siamo in grado di accogliere il nostro destino, una destinazione molto più ampia, gioiosa, vasta, leggera, di cui l’esperienza incarnata in questo momento storico non è un ingombrante accessorio o inutile orpello. È la porta per la trasformazione, il materiale formale dell’alchimia che si compie su livelli più sottili, invisibili ma percepibili affinando sensi interiori e ampliando la disponibilità di ascolto, abbandono, ricettività


Tale disponibilità è il lavoro alchemico per eccellenza dello Yoga nella sua essenza, che infatti a me piace definire Poesia dell’Anima. L’ascolto è il senso primario di cui si nutre lo spirito poetico che può essere incarnato da chiunque si faccia abbastanza spazio nello sfondo silenzioso della vita, da poter entrare in relazione con qualcosa di infinitamente più grande, universale e umano al tempo stesso. Non è un monologo tra sé e l’ego, il poetare autentico. È un dialogo immersivo nell’anima del mondo che non concede deroghe. Accade spontaneamente, come la meditazione nello yoga alla quale ci si avvicina preparando un terreno fertile ma che al culmine della maturità, sopraggiunge inevitabilmente. Oppure no, dipende dalla maturità. 

I frutti maturano quando è tempo

Abbiamo una possibilità grandiosa per fiorire e rifiorire ogni giorno. E dopo i fiori, arrivano i frutti, ammenoché non si incarni la “lezione Advaita” del Fico, il frutto che salta la fioritura per compiersi direttamente nel momento succulento dell’adesso. (Per approfondire: Come attualizzare la potente visione poetica di Rilke – Elegia VI – Il “puro segreto” del fico

La spaziosità è un requisito fondamentale. 

Si è troppo abituati a ragionare, a esprimersi, a crearsi un senso di identità solo in termini di tempo. Si è in balia del tempo, di una programmazione che ci vorrebbe sempre protesi ansimanti al futuro o tediosamente ingobbiti sul passato. E invece, siamo nati con una costituzione organica che ci tiene consapevolmente eretti sulla spina dorsale, dritti con i piedi per terra e il corpo proteso verso il cielo. Perdiamo questa posizione quando dormiamo, o quando non siamo troppo presenti a noi stessi. Fateci caso! E la presenza è solo il Presente, un momento senza scadenze in cui lasciarsi andare alla danza delle sincronicità, delle intuizioni e al ritmo spontaneamente poetico della vita. 

Se si passa dalla dimensione temporale a quella spaziale, è più semplice sperimentarlo, il corpo ha un’organizzazione perfetta quando si sintonizza con i ritmi del cosmo. E questo gli antichi yogi lo sapevano bene!


Vi siete mai percepiti in termini di spazio? 

Un approccio di questo tipo nella vita quotidiana può avere effetti strabilianti. Personalmente, ho avuto grandi maestri in tal senso e li reputo ancora tali. Sono la poesia, lo yoga e la meditazione quando accade. Hanno una cosa in comune, anzi molte. Ma quella principale mi piace evocarla prendendo in prestito le parole di Ralph Waldo Emerson dal libro Essere poeta:

 “La grandiosità della nostra vita esiste malgrado noi, sopra e sotto e dentro di noi, in ciò che di noi è inevitabile e fuori del nostro controllo. Gli uomini sono sia fatti sia persone, e la parte involontaria della loro vita è così immensa da riempire la mente e da lasciarli senza espressioni del volto capaci di dire alcunché su cose banali come i loro egoistici pensieri e atti. Prima o poi ciò che ora è vita sarà poesia, e ogni tratto leale e umano aggiungerà al canto una più ricca variazione.

A rigore, la poesia è organica, costituzionale. Non possiamo conoscere le cose con parole e scrittura, ma solo assumendo una posizione centrale nell’universo, e vivendo nelle sue forme. Affondiamo per risorgere.” 


 

Assumere una posizione centrale nell’universo. 

C’è così tanto in questa intuizione!

Risuona di integrità, di Unione (che è alla radice della parola stessa Yoga), di ritmo (che è la quintessenza della Poesia), di visione espansa (che è lo sguardo contemplativo nella Meditazione). 

A rigore, la poesia è organica, costituzionale. 

Non sono solo parole, frasi ben dette o scritte, virtuosismi di penna. 

È un fatto vitale. Di questo, prima o poi, all’improvviso e per assurdo, dovremo tutti farne esperienza… “quel disco di Luce bisogna cogliere, null’altro”. 

Concludo, come anticipato, con i versi di Rilke tratti dalla lettera al suo traduttore polacco Vitold von Hulevicz del 13 novembre 1925 in cui quel disco di Luce appare fin troppo chiaro: vivere poeticamente, in obbedienza al proprio destino. 

“Il nostro compito è quello di compenetrarci così profondamente, dolorosamente e appassionatamente con questa Terra provvisoria e precaria, che la sua essenza rinasca invisibilmente in noi. 

Noi siamo le api dell’invisibile. 

Noi raccogliamo incessantemente il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare d’oro dell’Invisibile”.


Articolo pubblicato su Yoga Magazine il 5 aprile 2022

Fonte: https://www.yoga-magazine.it/2022/04/rifiorire-e-darsi-poeticamente-al-mondo/

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11 aprile 2022

Liberarsi da un mondo di sofferenza | La lezione di Tara, divinità compassionevole


Mondo di sofferenza: eppure i ciliegi sono in fiore!” Questo haiku di Kobayashi Issa mi sembra quasi poter racchiudere il senso della compassione universale che affiora sul terreno di un paradosso evidente: c’è sofferenza e c’è bellezza al tempo stesso.
La sofferenza del “mondo” non impedisce ai ciliegi di fiorire e di effondere la loro commovente bellezza, seppur effimera, nella naturalità delle cose. In natura la bellezza è un processo inevitabile, inarrestabile, frutto di armonie invisibili a cui il corso naturale delle cose si arrende. Non c’è resistenza, a niente: ai temporali così come alle giornate di sole. L’ambiente naturale è uno spazio di minima resistenza alla vita che dona il massimo delle potenzialità vitali per sostenere processi di continua evoluzione. 


Possiamo accogliere qualsiasi luogo di natura (la madre Terra) come simbolo di questa dimensione equanime dell’esistenza in cui lo spiraglio di un modo più esteso di vedere le cose dona un bagliore luminoso persino a quel “mondo di sofferenza”.

La fioritura dei ciliegi in un mondo di sofferenza mi evoca la bellissima immagine della dea tibetana della compassione, Tara, emblema dell’equanimità e invero aggraziata raffigurazione della Madre, la madre Terra che sostiene e nutre.

Secondo la tradizione del buddhismo tibetano, Tara nacque da una lacrima del Bodhisattva Chenrizy che piangeva a causa delle sofferenze presenti nel mondo. Mossa a profonda compassione, la dea si promise di aiutare non soltanto lui, ma ogni essere. Il suo corpo di luce verde smeraldo radioso e trasparente allude alla sua capacità di azione illuminata, ovvero di aiuto disinteressato e altruismo scevro da motivi egoici.


TARA, LA COMPASSIONEVOLE

Immagine dal Libro di Ph.d. Wooten, Rachael
intitolato "Tara: The Liberating Power of the Female Buddha:
22 Meditations to Heal Ourselves and Repair Our World"


Considerata la madre di tutti i Buddha, rappresenta l’energia femminile, qualità energetica intrisa di senso di accudimento, empatia e saggezza. È una delle dee più amate e venerate dagli appartenenti al “Veicolo di Diamante” (Vajrayana), la forma tantrica del buddhismo tuttora praticata in Tibet, in Mongolia e in tutta la regione himalayana. Personifica la materna ed amorevole sollecitudine dei buddha nel suo aspetto di intervento rapido ed efficiente per proteggere e salvare tutti gli esseri senzienti.

La sua stessa postura – nella maggior parte delle sue figurazioni - esprime tale propensione a proteggere e a prendersi cura degli esseri viventi (la gamba destra piegata protesa in avanti pronta per un sollecito aiuto) unita all’atteggiamento meditativo a simboleggiare l’illuminazione dell’essere dietro la sua compassione. Un impulso di amore non cieco bensì guidato dalla chiara visione di una mente che non si attacca a nulla, a monito del fatto che l’amore autentico non può che nascere da un distacco dai condizionamenti mentali ed emotivi che inquinano la visione pura della nostra vera natura essenziale. 

Senza la possibilità di accogliere una prospettiva più ampia sull’esistenza grazie a una visione poeticamente e spiritualmente espansa, le cose del mondo ci influenzeranno sempre di più in una maniera eccessiva e distorta. L’equanimità è la qualità che, per eccellenza, ci connette a tale prospettiva più ampia, fa emergere il senso di interconnessione che ci lega alla nostra comune essenza umana e a tutti gli esseri viventi, nonché alle forze invisibili cosmiche universali che sostengono sottilmente la nostra evoluzione nel mondo relativo dei fenomeni e delle nostre vicissitudini personali. 

Non necessariamente è possibile controllare la sofferenza che si presenta nel mondo, ma c’è sempre la scelta su come relazionarci ad essa: se resisterle provando avversione, oppure se non resisterle confidando in un’armonia invisibile che nega l’evidenza richiamandoci all’intuito di una fede più grande, assoluta e definitivamente conciliante. 

L’inevitabilità del dolore può trovare nell’equanimità compassionevole non solo un rifugio, un balsamo, un antidoto, bensì una via concreta per la sua trasmutazione. 

FORMULE DI MEDITAZIONE SULL’EQUANIMITA’ E AMOREVOLEZZA (METTA)

Le formulazioni verbali utilizzate nelle pratiche buddiste di meditazione e interiorizzazione sulla gentilezza amorevole (Metta) e sull’equanimità, hanno il profumo e i colori della fioritura dei ciliegi. Emanano quel senso di quieta ineluttabilità, paziente fiducia nel corso delle cose e, in definitiva, resa totale (Surrender) a un piano di intelligenza superiore a cui affidare il senso di impotenza che a volte può affliggerci di fronte alla sofferenza, nostra e altrui. 
Proprio come i versi di una poesia dal potere rischiarante se lasciati vibrare in qualche attimo quieto di silenzio meditativo, queste frasi possono incoraggiare la connessione con un punto di vista non ordinario che può donare sussurri di leggerezza a ondate sempre più convincenti.

Un esempio di tali invocazioni


“Possa io accettare le cose come sono”.

“Le cose non vanno a modo mio. Lascio andare la mia idea di come dovrebbero andare. La mia percezione di ‘me’ e ‘mio’ deve ampliarsi”.

“Vi auguro felicità e benessere, ma non posso fare scelte per voi, e neppure controllare o mutare il corso delle cose”.

“Come io voglio essere libero dalla sofferenza, possano tutte le creature essere libere dalla sofferenza” .


(La pratica estesa di Metta è spiegata nel prezioso libro di Thich Nhat Hanh: Paura. Superare la tempesta con la saggezza)


MANTRA DI TARA: IL RISVEGLIO DELLA FORZA DELLA MADRE


Quando siamo sopraffatti da sentimenti negativi o da un eccessivo senso di smarrimento per la sofferenza che percepiamo in noi e nel mondo esterno, possiamo sempre rivolgerci a quella parte saggia e amorevole di noi che l’archetipo di Tara simboleggia con i suoi colori e dettagli allettanti, indumenti di seta celestiale e ornamenti stupendi che vogliono incoraggiare la fede in chi ne è privo e aumentarla in chi già la possiede. Evoca la bellezza incarnata dal piano di coscienza risvegliato e sorride con amore emanando empatia nonostante il “distacco” dato non dall’insensibilità al mondo, ma dalla visione espansa su quella parte di mondo illusorio creata dai condizionamenti mentali.

L’immagine di Tara propone un ideale a cui aspirare, la fusione tra sentimento ed equanimità, tra sensibilità di cuore e amorevole distacco di una mente discriminante che – intrisa di saggezza spirituale impersonale - trascende il piano della verità relativa connessa alla visione ordinaria, personale, psicologica, delle cose.

Il risveglio della forza della Madre dentro di noi
, richiama la discesa di un potere di fede totale che ti fa dire “Tutto è perfetto” quando invece tutto attorno a te sembra volerti convincere del contrario. Si tratta di uno sblocco di nevrosi basato sulla paura e diffidenza atavica molto potente. Una sfida lungo un sentiero inesorabile e paradossale così ben tracciato da Chogyam Trungpa, erede e maestro di meditazione dei lignaggi di Milarepa e Padmasambhava, nel suo libro La pazza saggezza.


Nella sua raffigurazione più comune, Tara dal colore verde è rappresentata seduta su di un trono di loto con la mano sinistra che regge un utpala (loto blu, simbolo dello scioglimento dei suoi blocchi di energia negativa) ed ha il palmo rivolto verso l’esterno, all’altezza del cuore, col pollice e l’anulare uniti e con le altre tre dita erette. La mano destra poggia sul ginocchio destro e anche il suo palmo è proteso verso l’esterno, ma col pollice e l’indice che quasi si toccano a formar e un cerchio, mentre le altre dita sono rivolte verso il basso in direzione del suolo: è questo il gesto simboleggiante il potere protettore e la suprema generosità. 


NON SFORZO, MA PAZIENZA 

Così come non si può rallentare né affrettare la fioritura di un ciliegio, nè la trasformazione di un bruco in farfalla, di un girino in rana e di qualsiasi altro processo in natura, così vanno rispettati i tempi di maturità e maturazione interiore di ciascun essere su questo pianeta. L’umiltà di accogliere le fasi di un processo, mantenendo salda l’aspirazione a protendersi verso il mistero della vita con occhi nuovi, può già stimolare un senso di compassione che “mantiene caldo il cuore”.
Mi viene sempre in mente che nella lingua spagnola “intuizione” si dice “corazónada”, la qualità del creare oltre sé stessi (il superamento dell’ego e la profondità intuitiva dell’essere) ha la radice nel cuore (corazón).
Il cuore è il grande trasformatore, il fuoco liberatore, qui è insito il potere di amare, il potere più rivoluzionario che ci sia.


Prendiamoci a cuore la nostra vita, nessuno al posto nostro potrà farlo, nemmeno Tara, che vuole solo spronarci a liberare le nostre energie spirituali latenti, specie quando la gravità delle cose terrene sembra volerci seppellire e disumanizzare! 

Alla bellissima dea, però, possiamo rivolgere il mantra che la onora, facendo vibrare in noi il respiro di una sempre rinnovata primavera.
Possa la confusione rinascere come saggezza!

OM TARE TUTTARE TURE SOHA



“Che io possa avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare,  

che io possa avere la pazienza di accettare le cose che non posso cambiare, 

che io possa avere soprattutto l’intelligenza di saperle distinguere.” 

(Tommaso Moro)


"Persino il generale si tolse l'armatura per guardare le peonie" (poesia zen)


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